Nell’escalation verbale di queste ore tra la Nato e la Cina, il ministro degli Esteri di Pechino ha usato una frase rivelatrice della dinamica in corso e, forse, anche delle difficoltà che ci aspettano nei prossimi anni. «Le diversità di sistema politico e di valori non dovrebbero diventare un motivo per incitare a una sfida» con il suo Paese, ha detto Wang Yi. In precedenza, i leader dei 32 Paesi dell’Alleanza atlantica avevano messo per la prima volta Xi Jinping e il suo apparato militar-industriale direttamente sotto accusa per il sostengo decisivo alla Russia nella guerra d’invasione in Ucraina. Il gigante asiatico è sospettato di trasferire a Mosca tecnologia per droni e missili nonché immagini satellitari. Si stima inoltre che il 70% delle macchine utensili e il 90% della microelettronica che la Russia importa, aggirando le sanzioni, provengano dall’alleato che continua a dichiararsi una «forza impegnata per la pace e la stabilità». La Nato che ha tenuto a Washington il summit operativo e celebrativo dei suoi 75 anni non guarda alla Cina come primo competitore ma deve fare i conti con la riluttanza (se non l’aperta indisponibilità) del cosiddetto Sud Globale a riallinearsi sulle posizioni occidentali, anche quando sembrerebbe giusto oltre che interesse di tutti difendere il diritto internazionale e la sovranità degli Stati, così palesemente violata nel caso ucraino. Pechino, appunto, lo fa solo a parole, contraddette dalle azioni sul campo. Il premier indiano Narendra Modi appena rieletto (e indebolito dall’esito elettorale) è volato a Mosca per incontrare Vladimir Putin: forse voleva parlare di un piano di pace, l’effetto però è stato di segno opposto. Si è intanto saputo che l’Arabia Saudita si è messa di traverso sul progetto di confisca dei 300 miliardi di beni russi congelati in Europa. Non si può astrarre da queste mosse per comprendere e valutare le decisioni assunte al vertice americano appena concluso e il contesto in cui sono maturate.
Le sorti di Kiev sono state ovviamente al centro dei lavori e la compattezza del fronte atlantico, malgrado i colpi di testa dell’ungherese Viktor Orbán, è il primo successo dopo quasi 28 mesi di conflitto. La volontà di stare al fianco di Volodymyr Zelensky e del suo popolo aggredito e martoriato non viene meno. Altri 40 miliardi di aiuti sono stati promessi, così come il percorso del Paese verso la Nato è stato definito “irreversibile”, qualunque cosa voglia dire in termini di tempo. Arriveranno batterie antimissile e alcuni F-16 tanto richiesti da Kiev, nel tentativo di fermare le letali offensive dal cielo che, proprio alla vigilia dell’incontro, hanno preso di mira l’ospedale pediatrico della capitale. Sono misure significative che però non cambieranno l’inerzia della guerra. Potranno rallentare ulteriormente l’avanzata russa, proteggere meglio le città e limitare i danni alle infrastrutture energetiche, messe sotto forte stress in vista delle stagioni fredde. Non si vede tuttavia una strategia di più lungo termine. L’Ucraina che vede restringersi la propria riserva di soldati regge l’urto delle Forze armate del Cremlino solo grazie all’appoggio della Nato. Non capitola, eppure subisce una lenta emorragia che la va impoverendo e fiaccando nei suoi gangli vitali. L’Alleanza atlantica ha potuto festeggiare finora una storia di successo: il Patto di Varsavia si è dissolto senza che si dovesse combattere; gli Stati membri sono sempre rimasti al sicuro; ha attratto recentemente anche nazioni storicamente neutrali come Finlandia e Svezia.
Oggi le armi si usano tragicamente ai confini dell’Alleanza. E non possono bastare. Qui entrano le condizioni al contorno. Il fronte attivamente pro-Kiev non si estende molto al di là del perimetro dei 32, con alcuni altri Paesi pronti a votare risoluzioni di condanna all’Onu e poco più.
Quindi, circondare Mosca in un “assedio” diplomatico diventa estremamente difficile, quando molti restano utilitaristicamente alla finestra, equidistanti in attesa di capire che piega prenderà il tentativo del “ricercato” Putin di modificare gli equilibri globali. I sistemi politici e i valori di riferimento sono differenti, ci piaccia o meno, e il mondo non sta tutto da una parte. Ognuno gioca la sua partita per l’influenza o l’egemonia. Non può nemmeno essere la logica della potenza quella che regola tale movimento. La politica deve riconquistare il suo spazio, e la Nato esserne un braccio, per trovare la via di una pace giusta sempre più urgente. A questo scopo serve un piano articolato di più lungo respiro, che ancora manca, complice l’incertezza che domina la scena americana. La domanda non è più: ci sarà ancora Biden alla Casa Bianca nel gennaio prossimo? Oggi ci si chiede se Biden sarà il candidato contrapposto a Trump dopo la convention democratica di agosto. In questo scenario, tutto si complica, gli ucraini ne fanno le spese. Non poteva essere la riunione dell’Alleanza a sciogliere questi nodi. Importante è avere tracciato alcune linee fondamentali. Decisivo ricordare che la diversità e le distanze ideologiche vanno gestite prima che si trasformino in pulsioni belliche
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