Avete mai percorso la E90? Non cercate questo itinerario sulle carte d’Europa, non lo trovereste. La E 90, secondo la numerazione della Fédération routière internationale, è una strada sull’acqua, un percorso che taglia il Mediterraneo occidentale collegando Barcellona con Mazara del Vallo. Spostarsi in auto dalla Catalogna alla punta della Sicilia richiede un viaggio di tre giorni, che diventano sei per un Tir. Un cargo veloce però trasferirebbe migliaia di tonnellate di merci da un capolinea all’altro di questo itinerario marittimo europeo nel giro di un paio di giorni. Tempo e denaro guadagnati, combustibile risparmiato, ingolfamento delle autostrade (di terra) ridotto, inquinamento atmosferico abbattuto. Dobbiamo modificare l’idea datata che ci siamo fatti del mare. Buono sì per vacanza, per la pesca professionale o dilettantistica, per la navigazione da diporto e insostituibile per regolare il clima. Fin qui tutti d’accordo, ma una connotazione ulteriore va aggiunta: la capacità del Mediterraneo (figlia di una vocazione che affonda nel radici nell’antico cabotaggio dei fenici e di greci) di essere una via d’acqua, parte integrante della grande rete di comunicazione transeuropea. Trasferire sulle cosiddette autostrade del mare un’aliquota di traffico terrestre (che potrebbe sfiorare tra qualche anno il 20 per cento del totale delle merci movimentate) permetterà all’Europa e all’Italia di respirare: strade meno intasate, contenimento dell’assedio dei Tir, aria più pulita, meno rumore, meno nevrosi, meno incidenti, meno morti e feriti. Per l’Italia, ponte verso l’Africa e l’Oriente, si profila un futuro da vero hub mercantile, piattaforma di interscambio capace di rinverdire i fasti delle repubbliche marinare. Il solo fatto di parlare di mare in questi frangenti impone però qualche riflessione amara sulla protervia criminale che talvolta contrappunta il rapporto dell’uomo con il Mediterraneo. Le cronache estive ci hanno raccontato di scarichi abusivi, contaminazione di spiagge, sversamenti di immondizia, comparsa di mucillagini maleodoranti attorno alle perle di uno specchio d’acqua ancora capace di autodepurarsi, ma che ha bisogno – si calcola – di 80 anni di tempo per effettuare il ricambio completo del suo contenuto. Pensavamo di aver toccato il fondo in fatto di ingiurie al Mediterraneo, invece a toccare il fondo sono state le 'navi a perdere', natanti fatti sparire nel nulla e nel silenzio generale per ragioni inconfessabili ma intuibili: eliminare tonnellate di veleni, sostanze nocive, materiali radioattivi. Tale pare sia stato il destino della Cunsky individuata al largo della costa calabrese di Cetraro, ma sono forse un centinaio le unità sepolte di proposito nell’enorme cimitero marino, mandate a picco non certo per frodare le assicurazioni ma per cancellare ogni traccia di qualcosa che andava nascosto per sempre. Che il Mediterraneo potesse diventare una pattumiera non importava a nessuno. E poi, chi doveva intervenire in assenza del corpo del reato e di una denuncia di affondamento? Facile chiamarsi fuori, lavarsene le mani. Così abbiamo, e avremo sempre di più, processioni di navi che percorrono autostrade d’acqua: business, denaro, lavoro, ricchezza. Intanto, centinaia di metri più sotto, la salsedine corroderà paratie e lamiere di relitti, carrette che rinserrano nelle stive autentiche bombe ecologiche. Qualcuna inevitabilmente finirà con l’esplodere e un pezzo di mare morirà. Ma era solo spazzatura nascosta sotto il tappeto. Resta un interrogativo senza risposta: fino a quando il Mediterraneo riuscirà a conciliare l’inconciliabile, lo sviluppo mercantile e la morte dei suoi più delicati ecosistemi?