Silicon Valley Bank non è «un’altra Lehman Brothers». Sostenerlo non è infondato ottimismo: sono troppe le differenze tra la crisi della banca californiana salvata venerdì dal fondo interbancario americano e la bancarotta del gigante finanziario che nel 2008 segnò l’inizio della grande crisi. Lehman Brothers è fallita perché aveva investito senza freni su titoli derivati complessi, dal valore indefinibile ma in ogni caso lontanissimo da quello indicato a bilancio.
Ha chiuso Lehman, è saltato qualche altro grande nome, ma in quei mesi a Wall Street nessuno poteva stare tranquillo: tutti avevano comprato in abbondanza asset basati su mutui subprime o altri crediti ad alto rischio. Garantivano ricchi rendimenti, almeno finché i debitori non hanno smesso di pagare. A mandare in crisi Svb, la sedicesima banca degli Stati Uniti, non sono state manovre speculative, ma scelte paradossalmente troppo prudenti. La banca, che gestiva i depositi di almeno metà delle startup della Silicon Valley, negli ultimi anni davanti a un enorme aumento di liquidità aveva pensato di cautelarsi comprando titoli del Tesoro americano, forse il secondo investimento più sicuro e trasparente dopo il dollaro. Il rapido rialzo dei tassi della Fed, saliti da 0 al 4,75% in meno di un anno, ha affossato il valore di mercato di quelle obbligazioni governative, che pagavano interessi troppo inferiori rispetto a quelle emesse negli ultimi mesi.
Nello stesso tempo i fondi di venture capital hanno ridotto gli investimenti sulle startup, che a loro volta hanno ritirato i depositi in Svb, che a quel punto ha dovuto vendere i bond prima della scadenza per rafforzare il capitale. Ci ha perso un paio di miliardi, ha mostrato le sue difficoltà ed è partita la corsa agli sportelli. In tre giorni è fallita. Non era un fondo speculativo, ma una banca tradizionale, che gestiva depositi e faceva prestiti, ma ha gestito male la liquidità. Per questo la sua vicenda difficilmente potrà essere “contagiosa”.
Però fa paura, non solo alle Borse. Spaventa quello che le crisi di Svb e Lehman hanno in comune: due storie di società finanziarie che crescono rapidamente nell’era dei tassi bassi e che franano quando il costo del denaro aumenta. Lo si ripeteva spesso, negli anni passati: i tassi a zero sono come doping per le banche, le società finanziarie, gli investitori. Se il denaro in prestito non costa nulla o quasi, come è avvenuto in Europa e negli Stati Uniti dal 2014 al 2022, allora ci si possono prendere dei rischi: prestare anche a chi ha prospettive deboli, investire in azioni di società in rosso ma promettenti, scommettere su improbabili criptovalute o comprare appartamenti da rivendere a un prezzo più alto in pochi mesi. Se invece il denaro è costoso perché gli interessi sono alti, come oggi nella Ue negli Usa, allora il gioco cambia. Occorre essere selettivi: studiare i piani delle aziende prima di fare credito, analizzare i “fondamentali” dei titoli da comprare in Borsa, scartare tutto ciò che è più marketing che sostanza. È più difficile fare la banca quando i tassi sono alti. È più complicato anche fare impresa, perché bisogna investire bene, scegliere ciò che davvero vale e darà un ritorno.
Gli stessi governi sono costretti a considerare con molta più cautela le scelte di spesa e di politica economica. I tassi alti sono impopolari, è inevitabile: azzoppano la crescita, indeboliscono la propensione a rischio, fanno evaporare posti di lavoro. Sono brutti, ma non sono il male: rappresentano una scelta tecnica per accompagnare l’evoluzione dell’economia contenendo i suoi eccessi sgraditi, come l’incredibile inflazione a due cifre che abbiamo visto nel 2022 e che contiamo di veder scendere ancora nei prossimi mesi. Conviene ricordarlo giovedì prossimo, quando il consiglio direttivo della Banca centrale europea annuncerà un nuovo aumento di 50 punti base dei tassi di riferimento, che raggiungeranno il 3,5%. Ci potremo lamentare degli effetti che quest’altro rialzo avrà sui mutui, sul credito alle imprese, sui prestiti alle famiglie.
Ma il nuovo spettro di Svb sarà lì, accanto a quello di Lehman Brothers e di tante altre crisi minori, a ricordarci che sembrava bello quando il denaro non costava niente e le Borse correvano impavide verso nuovi massimi storici, ma non poteva durare per sempre. Venerdì scorso Eurostat ha segnalato che in un anno il prezzo medio delle uova in Europa è aumentato del 30%. Come se le galline avessero voluto la loro parte della torta dei rincari, visti i tanti soldi in circolazione. Forse un po’ di disintossicazione dai tassi a zero sarà salutare per tutti. Anche per noi italiani. Serve giudizio.