Le cronache di queste ultime ore raccontano due vicende analoghe per ambientazione, il carcere e l’ospedale, ma totalmente in contrasto tra loro per protagonisti, sviluppi ed epiloghi. Un contrasto dal sapore amaro, che non si può fare finta d’ignorare. Parliamo delle storie di Stefano Cucchi, tristemente nota, e di quella, venuta alla luce ieri, del boss della ’ndrangheta Roberto Pannunzi. Il primo era un ragazzo romano di 31 anni, il cui profilo esile si curvava sotto il peso di mille problemi. L’altro è «la più alta espressione del narcotraffico» mondiale, definizione coniata dagli investigatori che ogni giorno danno la caccia a questo genere di "galantuomini". Cucchi è stato fermato dai carabinieri in un parco romano perché sospettato di spacciare stupefacenti: aveva con sé 20 grammi di hashish, 2 grammi di cocaina, uno spinello, 2 pasticche di ecstasy. Pannunzi, 64 anni, è stato arrestato per la prima volta nel 1994 a Medellin (quando cercò di corrompere con un milione di dollari i poliziotti che lo stavano ammanettando), poi scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ed è finito di nuovo dentro nel 2004: nel suo periodo di massima attività, faceva arrivare dalla Colombia in Europa due tonnellate di cocaina al mese. Giudicato con rito direttissimo, Cucchi è stato trasferito a Regina Coeli e, il giorno successivo, ricoverato nel «presidio protetto» dell’ospedale "Sandro Pertini" di Roma con fratture, ematomi ed ecchimosi in tutto il corpo. Condannato per associazione per delinquere di tipo mafioso e traffico internazionale di droga, Pannunzi era in regime di «sorveglianza speciale», ma da quasi un anno aveva ottenuto gli arresti ospedalieri per motivi di salute, in una casa di cura privata nei dintorni della Capitale. Dopo cinque giorni al Pertini, Cucchi è morto nel «reparto protetto» perché, sostengono i periti della procura, non ha ricevuto le cure di cui aveva urgente bisogno. Pochi giorni fa Pannunzi è scappato dalla clinica e adesso è di nuovo latitante. Fin qui il contrasto di cui si diceva. Amaro, appunto. E provocatore. Sono tanti, infatti, gli interrogativi che ne scaturiscono e poche le risposte plausibili. Qualcuno, autorevolmente, chiede di cambiare le leggi, inserendo automatismi che limitino la discrezionalità dei giudici di sorveglianza per scongiurare evasioni come quella del boss. Ma, anche così, resterebbe scoperto l’altro e più doloroso versante: quello dell’assurda fine di Stefano. Perciò, per una volta, non sembra questione di norme scritte. Quelle ci sono già, inclusi i codici deontologici delle professioni coinvolte. È banale allora osservare che, in entrambe le circostanze, sarebbe bastato coniugare il diritto alla salute di ciascuno con lo scrupolo e il buon senso? Forse, ma è una banalità da tenere nel giusto conto, se si tiene al rapporto di fiducia (già per molti aspetti incrinato) che dovrebbe legare il popolo allo Stato! Detto con cruda franchezza: non si può correre il rischio d’ingenerare nei comuni cittadini, persone semplici come i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, il terribile dubbio che sia soltanto una questione di quantità. Di soldi e di droga. Ovvero che chi (forse) ha venduto qualche grammo di hashish, perché a sua volta ne era dipendente, può essere lasciato agonizzare e morire in un letto d’ospedale pubblico, mentre chi fa commercio internazionale di eroina e cocaina, coprendosi di sporca ricchezza e seminando morte e schiavitù, può disporre degli agi di una clinica privata, facendola perfino franca. Non è sempre così. Ma, in questi due casi, così è andata. Per le presunte "disattenzioni" di alcuni medici e probabilmente, per quanto riguarda la fuga di Pannunzi, a causa del giudizio errato di più di un magistrato.