«Tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino... Grani di incenso rosso... Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14... risultati appartenere a persona vissuta fra il I e il II secolo». Le parole di Benedetto XVI nella Basilica di San Paolo fuori le Mura descrivono minutamente l’inventario di ciò che una sonda ad alta tecnologia introdotta nel sarcofago sotto l’altare ha trovato. Lino color della porpora, intessuto di oro: quel defunto era stato avvolto in un sudario da imperatore. Sepolto come un re, sulla strada verso Ostia, sul luogo noto per il martirio di Paolo. «Ciò – dice il Papa dopo un istante di pausa – sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo». Il corpo di Paolo. Le sue ossa, incenerite da due millenni; la sua ultima veste drappeggiata sulle membra straziate, che ancora, nel buio sigillato della tomba, luccicano d’oro e di porpora, il colore del martirio. In qualcuno, nella folla dei fedeli, e tra quanti il giorno dopo hanno saputo, un tonfo al cuore. Paolo è lì. Così come Pietro, in Vaticano. La tomba di Pietro è stata identificata, quasi sessant’anni fa, in un’edicola funeraria esattamente sottostante l’altare centrale della basilica. Sulla lapide era inciso, in greco: Petros enì, Pietro è qui. E anche di Pietro furono rintracciate, dall’archeologa Margherita Guarducci, le ossa: frammenti d’ossa avvolti in porpora e oro. Fu Paolo VI, il 26 giugno 1968, a dichiarare: Pietro è qui. Ma, potrebbe obiettare un non credente o un cristiano distratto, avete bisogno di queste ossa? A cosa serve, nella dinamica della Chiesa e della fede, quel povero cumulo d’ossa prosciugate dal tempo? Paolo, Pietro, non contano forse per ciò che ci hanno lasciato? Sì, certo. E tuttavia il corpo, tuttavia la carne è cosa straordinariamente rilevante, in questa storia di terra e di radici su cui sono piantate, come cose vive, le basiliche della cristianità. È la ragione per cui la basilica di San Pietro sorge sulla verticale di quella tomba, anche se poi la lapide e i graffiti vennero dimenticati per secoli. L’altare centrale è esattamente sopra quella piccola edicola, e la verticale della cupola cade proprio su quel punto del sottosuolo – come un raggio tagliente, o una ferita, fra la terra e il cielo di Roma. In alto, dentro all’anello da cui si affacciano attoniti i turisti, sta scritto: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo aecclesiam meam». Super hanc petram, su questa pietra; su questa, e non altrove. E ora anche a San Paolo fuori le Mura le sonde e il carbonio 14 ricostruiscono composizione chimica e età del contenuto di una tomba. Un uomo vissuto nel primo secolo, sepolto con gli onori di un re. I resti di Paolo. Ha bisogno il cristianesimo di queste ossa? A stretto rigore si potrebbe dire di no. E tuttavia Cristo ha affidato la sua Chiesa a degli uomini, uomini di carne e di ossa. Non a discorsi, non a eteree parole ha consegnato il suo mandato: ma a uomini, che da una generazione all’altra lo trasmettessero ai figli. E noi, cronologicamente di questi figli gli ultimi, siamo emozionati e commossi dal sapere che, sotto le pietre delle nostre basiliche, ci sono i corpi dei primi dei santi. I loro volti, le loro mani, le instancabili forti gambe di Paolo: certo, polverizzate dai secoli, e però resti di carne. Vuol dire una gran cosa, quella tomba, quelle tombe, lì, e non altrove: vuol dire che crediamo in un fatto che è storia, storia carnale di uomini, e non leggenda, filosofia, o, come tristemente si equivoca oggi, astratti «valori». Crediamo in un Dio uomo che ha scelto Pietro, e che ha mandato Paolo, il suo persecutore, a annunciarlo. È storia. Sui luoghi del martirio restano tombe con incensi e ori. E noi, uomini di ossa e carne, siamo grati di questi segni; perché, da uomini, abbiamo bisogno di toccare.