Nella relazione che Emma Marcegaglia ha pronunciato ieri all’assemblea di Confindustria c’è un passaggio rimasto sotto traccia, in realtà fondamentale. «Senza riforme – dice la presidente – occorrerà attendere fino al 2013 per recuperare i livelli produttivi di prima della crisi. Un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori, delle imprese e sulla stessa coesione sociale».È vero, i segnali positivi iniziano a far capolino e con ogni probabilità già dall’anno prossimo la recessione sarà finita. Ma, avvertono gli industriali, la caduta è stata così pesante da richiedere forti ritmi di crescita della produzione e del Pil per essere pienamente recuperata. E l’Italia, da un decennio a questa parte, non è mai cresciuta oltre l’uno virgola qualcosa. Sarà questa la sfida che attende il Paese: per tornare a respirare fuori dall’acqua della crisi occorrerà, non tanto rimettersi a galleggiare, quanto nuotare con decisione, darsi una spinta forte. Altrimenti, alla lunga, le vittime della crisi in termini di disoccupati e nuovi poveri rischiano di essere più di quante non se ne registrino oggi, nel pieno della tempesta.Ma a quali risorse attingere per dare questo colpo di reni? La presidente della Confindustria ha indicato con chiarezza la propria ricetta: «Si facciano le riforme, subito, adesso». A partire da quella delle pensioni, liberando così risorse da destinare agli investimenti. Ora, a rendere necessario un graduale aumento dell’età minima pensionabile è l’allungamento della vita media dei cittadini e la nostra stessa struttura demografica, ormai a piramide rovesciata, con pochi bambini e moltissimi anziani. Tanto che persino il sindacato non oppone più un «no» pregiudiziale, ma pone condizioni, più o meno pesanti, sul "come" eventualmente procedere. Il più restìo ad operare in questo momento, in realtà, è il governo, che ancora ieri con Tremonti ha tagliato corto: «Se ne parlerà a tempo debito».Non illudiamoci, però, che sia la pur necessaria riforma delle pensioni a portarci fuori dal guado. Fondamentale appare in realtà un cambio di passo deciso nel modo di fare impresa e di lavorare nel nostro Paese. Investimenti, ricerca, innovazione, focalizzazione sul prodotto, spinta all’export e soprattutto un più stretto rapporto lavoratori-azienda sono le chiavi per accendere un nuovo, più solido sviluppo. La Confindustria e la parte più avanzata del sindacato l’hanno capito e, rinnovando il sistema contrattuale, hanno cominciato a gettare le basi della nuova fase. Che adesso, però, deve trovare concretezza: in un incremento significativo dei salari (troppo bassi), in comportamenti premianti per i giovani (troppo a lungo precari nelle aziende), nell’apertura convinta alla partecipazione nelle sue diverse forme, nell’agevolare, da parte del sindacato, la crescita della produttività delle aziende.Una notazione, però, è a questo punto necessaria. Mentre nel mondo produttivo si delinea – pur con fatica ed eccezioni – un nuovo clima d’intesa e di collaborazione, in vista d’un bene comune, in politica si avverte qualcosa di inverso, un’involuzione, un avvitarsi su se stessi. Ovvio, siamo in campagna elettorale, e l’opposizione non esita a sparare i suoi colpi. Ma è quantomeno deludente che il premier non utilizzi linguaggi adeguati e pertinenti, che all’assemblea degli industriali replichi la polemica sui giudici e riapra quella sul Parlamento, che non rinunci al battutismo. Si può per favore parlare di strategie economiche, del futuro delle imprese e della vita dei lavoratori, anziché di veline e toghe, in questo Paese?