Il faticoso cammino parlamentare del disegno di legge sulla sicurezza preoccupa più di un membro del governo, a cominciare dal ministro dell’Interno, ma si è rivelato finora produttivo. A Montecitorio, soprattutto per le parti riguardanti la disciplina dell’immigrazione straniera in Italia, il testo è stato letto, riletto e sottoposto a lenti d’ingrandimento utilmente rafforzate: basti pensare a quelle usate in prima persona dallo stesso presidente della Camera, ma anche a quelle proposte a più riprese ai deputati di maggioranza e di opposizione da un gruppo di realtà associative e di volontariato (Acli, Caritas, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio, Comunità Papa Giovanni XXII, Fondazione Migrantes). Grazie a tutto questo, il ddl ha subìto correzioni importanti, tali da evitare che nello sforzo di perseguire più sicurezza si commettessero almeno un paio di strafalcioni giuridici e d’ingiustizie civili. L’opportuna caduta di norme ed emendamenti sui cosiddetti medici-spia e prèsidi-spia va salutata, insomma, con soddisfazione. Nel merito, è la conferma che sanità e istruzione non possono essere ridotte a terreno per operazioni di pubblica sicurezza. E, quanto al metodo, è la dimostrazione di come anche su tematiche improvvidamente trasformate in questioni-bandiera sia possibile ragionare e cambiare parere. Ora però si profila un altro rischio: che riflessioni e messe a punto finiscano di colpo e che il testo venga congelato così com’è dalla richiesta di una piccola serie di voti di fiducia. Il ministro Maroni teme, e lo dice senza giri di parole, «imboscate». E chiaramente pensa ai non pochi alleati perplessi, e a loro volta preoccupati, da un’operazione legislativa dalla più che certa paternità leghista, ma dagli esiti incerti. Oggi ne sapremo di più. Possiamo, però, dire sin d’ora che quest’irrigidimento e quest’accelerazione dell’iter sarebbero un grave errore. In grado di rivaleggiare con quello che si potrebbe considerare il peccato d’origine del ddl. Un sistema di norme che tende a proporre allo straniero immigrato in Italia una sorta di percorso a ostacoli da superare per restare in questo Paese piuttosto che regole chiare verso un’integrazione da ricercare per convenienza e per convinzione. Di quale altra logica è, infatti, frutto l’allungamento da 6 mesi a 2 anni del tempo necessario a chi sposa un italiano o un’italiana per richiedere la nostra cittadinanza? Se il punto sono i matrimoni di comodo, non è questo il modo per contrastarli. Così come non si capisce perché per poter sposare una cittadina indiana o sudafricana o venezuelana un cittadino italiano dovrebbe poter esibire il permesso di soggiorno della futura signora. Di questo passo s’incentiverà una nuova forma di luna di miele: quella che comincia prima delle nozze, da celebrarsi rigorosamente fuori dall’Italia. E senza escludere la possibilità del raggiro: non è poi tanto azzardato immaginare vacanze pagate sull’altro lato del Mediterraneo in cambio di matrimoni combinati e a tempo... Siamo, poi, sicuri che il «reato di clandestinità» possa essere la base di un sistema di regole che riduca al minimo e addirittura eviti l’incresciosa e spesso drammatica vita tra noi di tanti semi-cittadini che un po’ hanno diritti (in quanto esseri umani) e un po’ non ne hanno (in quanto irregolari)? Siamo sicuri che quel reato e una sequela di balzelli annuali aggiuntivi (tra 80 e 200 euro) diventeranno il «muro» in grado di arginare il fiume d’umanità che si riverserà – previsioni della Ue – sul Vecchio Continente nel prossimo mezzo secolo? In Italia, nel 2060, i neo-italiani provenienti da altre parti del mondo saranno circa il 20% della popolazione. Italiani di origini non autoctone, eppure qui radicati, eppure qui desiderosi di stare, eppure – sperabilmente – capaci di dare un sapore nuovo e buono allo straordinario impasto sociale del Bel Paese. È concepibile immaginare quella società, la nostra società, tenuta insieme per sospetto e con fatica, da un reticolato di muri e muretti da vigilare e da saltare? È possibile che non si lavori – già qui e ora – perché sia chiaro a tutti che «legalità» significa «accoglienza» non «ostilità», e che non c’è accoglienza se si incentiva l’isolamento di gruppi e di persone e se si ostacolano le solidarietà familiari? Queste domande sono la risposta a chi si chiede perché è giusto che il cammino parlamentare del disegno di legge sulla sicurezza continui per la sua via naturale. Con la fatica e i ripensamenti necessari. C’è una questione di fiducia più grande, che riguarda il futuro di tutti. E va affrontata.