La lunghissima crisi economica che in modo continuativo scompaginò le economie del continente nell’ultimo quarto dell’Ottocento, insieme alle trasformazioni dei rapporti politici che rendevano evidente il deterioramento di equilibri realizzati in secoli di storia, chiedevano risposte alla cultura del tempo. D’acchito le difficoltà della politica (dove sembrava inarrestabile la crisi degli Imperi e il travaglio identitario interno alle singole realtà statuali) come la grave crisi recessiva, che aveva nel crollo dei prezzi l’elemento più devastante, sembrarono gli esiti di una grave congiuntura negativa, superabile con gli strumenti di sempre, incrementati dall’apporto di tecnicalità di portata grande quanto mai si era visto nella storia. La fede nel progresso determinato dalla tecnica creava fiducia piena nella capacità dell’uomo che da faber sui si sarebbe riscoperto demiurgo, capace di forgiare, determinare e dominare il mondo. Era l’applicazione di un razionalismo esasperato, sostenuto dalla convinzione profonda di aver individuato le leggi naturali sottese ai comportamenti umani, leggi 'universali' e quindi, per definizione stessa, morali. Se dopo l’immane tragedia della Guerra per regolare i rapporti internazionali si sarebbe intrapresa la naturale scorciatoia del principio di nazionalità (con i conseguenti drammatici esiti di pulizia etnica e creazione di moltitudini di profughi) sfociate poi nei biechi nazionalismi del ’900, in economia protagonista per eccellenza era il naturale modo di produrre capitalistico, generato dall’offerta (e non dalla domanda di beni atti a soddisfare bisogni reali) con alla base l’individualismo impersonale, la mera ricerca dell’interesse privato e una strumentazione finanziaria (sempre più tecnicamente sofisticata) non solo 'lubrificante' dell’economia, ma strumento privilegiato di rapido arricchimento. I drammatici crolli bancari di fine Ottocento insieme alla malversazione sui titoli sovrani (primo fra tutti quello sulla Rendita consolidata italiana) denunciavano chiaramente questo stato di cose. A più di cento anni di distanza appare chiaro come quella in realtà non fosse una crisi congiunturale, ma la prima avvisaglia di un profondo travaglio, non ancora concluso, di una umanità alla ricerca di una via diversa verso uno sviluppo duraturo e globale. Pochi preveggenti in quel passaggio tra Ottocento e Novecento, intuivano questo stato di cose, ed erano altresì convinti che una soluzione adeguata non si sarebbe originata da tecniche anche sofisticate sostenute da presunte leggi naturali.
Occorreva veramente dare una risposta globale alle res novae in atto, non assumendo come legge naturale il comportamento più diffuso o considerato (falsamente) più efficiente, ma quello meglio capace di dare risposte globali alla ricerca umana di felicità. La ricerca dell’interesse privato risultava incapace di produrre risultati duraturi e generalizzanti. E anche l’apporto diretto ed esclusivo dello Stato (in crisi già allora) non poteva surrogare totalmente tale incapacità: avrebbe potuto creare (come in effetti fece) incrostazioni burocratiche tali da appesantire e ritardare la risposta ai bisogni. Andava invece interpretato, giustificato e coordinato quel vero e proprio pullulare di iniziative che germinavano dalla società civile e palesavano la vivacità di un tessuto sociale capace di 'farsi' da sé, abile nel trovare autonomamente e gradualmente un equilibrio duraturo perché elastico e dotato 'in sé' degli strumenti atti a soddisfare i bisogni. Erano elementi minoritari rispetto all’insieme, risultavano cellule di una nuova (ma antica) 'oikonomia', quasi il cuore di un modo d’agire che travalicava le barriere del tempo. Non erano strumenti residuali di una economia 'terza', attiva là dove il mercato falliva e lo Stato non era interessato ad intervenire, ma un modo originale di fare economia, il più vicino al modo più naturale ed efficace se non soffocato da regolazioni fatte per altri modelli.
Al centro si poneva la persona concreta, interagente con altre persone fino a formare una comunità (nel senso etimologico di communitas) e, insieme, diverse comunità interagenti tra loro in una sorta di federalismo personalistico. Si trattava di qualcosa di nuovo, ma anche di antico perché rivelava tratti analoghi a quelli delle antiche istituzioni corporative che, nella fase del loro maggiore sviluppo, avevano informato l’economia dell’Europa premoderna. L’elaborazione culturale che ne era alla base guardava a queste istituzioni non certo con gli occhi della nostalgia, ma allo scopo di individuarne i valori persistenti, come un distillato della storia, la prova della persistenza di un modo originale di rispondere a bisogni sempre presenti nella società europea. La logica di fondo era quella della solidarietà ed era proprio la solidarietà a creare efficienza. Alle loro spalle, quindi, non si poteva non intravvedere una antropologia diversa da quella proposta dal pensiero allora dominante, perché attenta ad ogni singola irripetibile persona, cellula viva della comunità e non anonimo mattone di una indistinta costruzione. Non aveva molto senso quindi la definizione di Maffeo Pantaleoni: la cooperativa, somma di tanti piccoli egoismi inefficienti. La società di 'liberi' doveva partire da lì rifiutando di credere all’inevitabilità di rapporti tra individui e gruppi (ad ogni livello dimensionale), mossi esclusivamente dall’interesse privato. Non poteva esistere solo un mercato impersonale, regolato da leggi positive basate su una presunta legge naturale determinata dal comportamento più politicamente corretto secondo la logica prevalente in quel momento.
Nella «nuova economia», della quale un primo esempio poteva essere per Giuseppe Toniolo la «nuova cooperazione economica», doveva esser lasciato spazio certamente alla ricerca dell’interesse proprio, ma temperandola con la ricerca dell’interesse per l’altro. Interesse, quindi, ma anche compassione nel senso etimologico di «immedesimazione gratuita nell’interesse dell’altro». Con, di conseguenza, tutta una gradazione di possibilità nello scambio, dalla perfetta simmetria fino, passando attraverso scambi asimmetrici, alla gratuità in alcuni momenti e casi particolari. Lungi dall’essere solo un apporto generato dalla convinzione religiosa o, più genericamente basato su istanze etiche, tale fattore era suggerito dalla ricerca di efficienza e agilità. E sicuramente la concertazione degli interessi privati non era sufficiente ad evitare prevaricazioni e conflitti e questo soprattutto nei momenti di crisi. Tutto però andava osservato e giudicato attraverso le giuste categorie interpretative e alla luce dei risultati raggiunti, ma con la volontà di discernere gli obiettivi finali, perché i valori non sono sempre quantitativamente computabili. Anche il modo d’operare poteva essere equivocato: la messa in comune delle scelte operative molto più presente delle le piccole imprese cooperative poteva essere considerata fonte di inefficienza come la predisposizione ad operare solidarmente in network poteva essere scambiata per connivenza piccolooligopolistica tra imprese.
Oggi la situazione è molto diversa da allora? Lo storico ha la strana sensazione di un déjà vu. Cento e più anni fa la vecchia Europa ha dato segni di grande vitalità e ha generato frutti (emersi per la verità come un fiume carsico rimasto per secoli latente) che ne hanno corroborato la crescita economica e sociale e che anche oggi potrebbero essere antesignani di una nuova stagione di sviluppo. Vale la pena di preservare un mosaico di colori per non cedere a un rassicurante, ma falso monocromismo. A partire agli ambiti locali fino a quelli sovrannazionali la necessità della presenza di una pluralità di modelli economici legittimati a proporre proprie regole anche differenti da quelle 'dominanti' appare anche oggi molto urgente ed è una cosa che non si può disattendere. Ne va del futuro dell’Europa.