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Gentile direttore,
dunque esiste anche un’associazione di “tifosi” juventini che si chiama Nab che sta per Nucleo armato bianconero. Ma come si può dare un simile nome a un gruppo di tifosi di una squadra di calcio? E come ci si può stupire del fatto che gente così sia accusata anche di aver ricattato la società bianconera per continuare ad avere biglietti gratuiti e altri privilegi? Mi verrebbe da dire che era implicito nel nome che si trattava di facinorosi! E non stupiamoci se dopo avere saputo che ci sono capo-ultras spacciatori o collusi con la mafia, “scopriamo” che cori razzisti negli stadi sono proprio intonati da loro e se ci rendiamo conto che gli ultras sono coloro che hanno tolto ai genitori la possibilità di accompagnare i figli allo stadio per vedere in pace uno degli sport di squadra più belli al mondo. Credo che i presidenti delle squadre di calcio, tutte, debbano vietare la comparsa di qualsiasi striscione razzista che offenda l’avversario, non dare più biglietti gratuiti agli ultras e a qualsiasi organizzazione che non sia una onlus riconosciuta dallo Stato. Il calcio professionistico deve tornare a fare divertire e sperare l’Italia, non a farla vergognare.
Enrico Reverberi
Gentile signor Reverberi, lei ha perfettamente ragione. Con la scusa che il calcio è fenomeno popolare e appartiene alla gente, si è dato molto, troppo spazio al tifo organizzato che, al suo interno, soprattutto per paura e nell’indifferenza di quasi tutti, ha finito per privilegiare i più arroganti e violenti. Un fenomeno dalle radici antiche, ma che forse mai come nell’ultimo periodo ha dato vergognosa prova di sé. Ricorda lo stadio di Marassi, nel 2012? I giocatori del Genoa furono “sollecitati”, si fa per dire, a consegnare le magliette agli ultras perché considerati indegni di portarle. E il derby di Roma sospeso per l’uccisione di un bambino che in realtà non c’era stata? E il portiere del Cagliari, Storari costretto a rinunciare alla fascia di capitano? È figlia della paura anche l’abitudine, pure simpatica, di ringraziare i tifosi a fine partita. Non so se l’ha notato ma i calciatori nel dopo gara si prendono per mano e vanno di corsa a ringraziare i supporter delle due curve. Appunto, delle curve, gli altri spettatori non esistono. Un gesto bello che in realtà nasconde un atto di resa, quasi il riconoscimento che a comandare allo stadio sono loro, gli ultras. E chi prova a ribellarsi viene preso di mira. Lo sanno bene i Galliani, i Lotito, che furono costretti a vivere sotto scorta, così come i bravi giornalisti che hanno avuto il coraggio di raccontare l’intreccio di violenza e minacce, velenoso sottobosco di un business milionario. Alla base un meccanismo ricattatorio persino semplice: se mi impedisci di fare affari con te, dice il capo tifoso al dirigente, e significa libertà di bagarinaggio, biglietti sotto costo, marketing di gadget e magliette, ti faccio squalificare il campo, ti costringo a giocare a porte chiuse, ti faccio perdere un sacco di quattrini. Spesso, per non dire sempre, l’hanno vinta loro. Ora però qualcosa sembra cambiare, la catena forse si può spezzare. Nel giorno in cui la dirigenza del Verona finge di non aver sentito i cori razzisti contro il milanista Kessié, la Juventus ha infatti deciso di dire basta. E l’ha fatto con un cambio di passo, rivolgendosi alle forze dell’ordine, mettendosi a disposizione della magistratura, spezzando quell’invisibile nodo di supponenza che attribuisce al calcio una franchigia di “stato nello Stato”, ma che in realtà giorno dopo giorno lo stringe al collo fino a soffocarlo. Si dirà che in Inghilterra e Germania il tifo violento è stato in larga parte sconfitto, che gli stadi, pur diventati freddi e un po’ troppo salottieri, ora accolgono anche le famiglie, ma siamo a latitudini diverse. L’esperienza insegna infatti che per vincere questa battaglia occorrono determinazione e certezza della pena contro i violenti, impianti comodi e sicuri, nessuna confusione di ruolo tra dirigenti, calciatori e tifosi. Come si capisce, nel nostro Paese, dove tra le grandi solo la Juve (anche in questo apripista) ha un impianto di proprietà, siamo all’anno zero. O quasi. Soprattutto paghiamo un pesante ritardo culturale. Inutile girarci intorno, fin quando, anche tra gli appassionati “normali”, si confonderà la passione con lo sfogo e il “tifo contro” prevarrà sulla gioia per i successi della propria squadra, tutto resterà come adesso. La sfida da vincere parte dal basso, da noi stessi. Chiamati a fermare il potenziale ultras che abbiamo dentro, spesso travestito da genitore che incita il figlio a entrare duro sull’avversario. In un campetto di periferia, lontano anni luce dai riflettori abbaglianti di una notturna di Serie A. O di una sfida Champions.