Gli Stati membri dell’Unione Europea non si coordinano (non fanno gioco di squadra) dove conta, è essenziale farlo (Europe does not coordinate where it matters). Punto e a capo. In questo periodo secco e isolato dell’introduzione c’è la sintesi del Rapporto Draghi. Una sintesi che richiama quell’intelligenza relazionale (fraternità) che è la grande assente nel paradigma socioeconomico contemporaneo, ed è invece al centro della rivoluzione dell’economia civile.
Scambio di doni come eccedenza rispetto a quanto dovuto che innesca gratitudine, reciprocità, fiducia, cooperazione, costruzione di relazioni solide e mette le basi per quell’“uno con uno” che fa “più di due” ed è il principio di superadditività che dà slancio e vigore alle compagini umane. L’intelligenza relazionale si fonda sugli stessi identici principi, che si tratti di relazioni familiari, interpersonali, tra colleghi di lavoro, compagni in uno sport di squadra, Stati nazionali. Ed è su di essa che si basano soddisfazione e ricchezza di senso di vita, pace, prosperità economica e sociale. Il primo fondamentale ambito in cui il rapporto Draghi declina questo principio è quello della condivisione delle risorse finanziarie con un appello all’esigenza di fare debito comune per finanziare l’ambizioso programma di investimenti (800 miliardi l’anno) necessario per ridare slancio all’Unione Europea nella competizione tra giganti. Il tema ovviamente non è nuovo se, ai tempi della crisi dell’Euro, dopo che Draghi allora presidente della Bce aveva lanciato un’altra frase che fece epoca (il famoso “Whatever it takes”, “Qualsiasi cosa serva” per salvare l’Eurozona), l’appello di più di 350 economisti pubblicato su Avvenire sottolineava l’urgenza proprio di questo passo avanti.
Rispetto ad allora ci aiuta la storia recente dell’Unione, con la sperimentazione di debito UE per finanziare la riassicurazione delle misure nazionali contro la disoccupazione varate dagli Stati membri durante la pandemia (Sure) e il Pnrr, un imponente progetto di investimenti pubblici (spesa pubblica buona) finanziato sì dai debiti nazionali, ma coordinato a livello europeo con criteri rigorosi di controllo e di verifica della spesa. Il nuovo Patto di stabilità, tra le righe dei piani poliennali che i singoli Paesi devono presentare, consente solo piccole divagazioni in questa direzione, prevedendo in principio la possibilità di deroghe ed eccezioni alle politiche di rientro per piani d’investimento approvati dalla Commissione. Ma non stiamo sfruttando il successo di Sure e Pnrr. E siamo effettivamente lontani da quel colpo d’ala auspicato da Draghi e dal suo drammatico appello (o si fa l’Europa o si muore).
Il principio dell’intelligenza relazionale (e la denuncia della mancanza di coordinamento e gioco di squadra) ritorna quando si parla di politica industriale. La logica del rigoroso controllo delle regole della concorrenza tra Stati ha poco senso in un mondo in cui ci troviamo a competere con giganti come Stati Uniti e Cina. È necessario fare squadra ed economie di scala per creare campioni europei, intervenendo sui punti deboli del nostro sistema economico (come la richiamata difficoltà di trasformare la ricerca scientifica in servizi e prodotti innovativi per i limiti della finanza e della capacità di commercializzazione dell’innovazione).
Breve ma essenziale, poi, il richiamo alla necessità della difesa del sistema di welfare europeo. Fondamentale per rendere la rivoluzione proposta politicamente sostenibile. Importante il richiamo alla transizione ecologica, indispensabile per la salvezza del pianeta, ma anche opportunità per l’Europa e la sua indipendenza energetica.
Queste linee guida del rapporto Draghi hanno però bisogno di essere innestate in una visione contemporanea e di frontiera dell’economia e della società, una visione più capace di cogliere le interdipendenze tra diversi ambiti. Non abbiamo bisogno di una crescita “non-importa-come”, ma di un piano più ambizioso e partecipato dalla società civile che crei le condizioni per il ben vivere, la generatività e la fioritura della vita personale affrontando altri due problemi nascosti come quello della povertà di senso di vita (che negli Stati Uniti è arrivata a generare vere e proprie epidemie di morti per disperazione raccontate dal Nobel Deaton) e della crisi di partecipazione e della democrazia. Co-programmazione, amministrazione condivisa tra istituzioni e società civile, processi partecipativi non sono un addendo qualsiasi ma il processo attraverso il quale l’Unione Europea può sopravvivere e prosperare. Come insegna l’evidenza empirica, siamo cercatori di senso, bisognosi di riconoscimento, affamati di relazioni, felici se generativi. Non esistono le condizioni di una rinascita europea che sia politicamente sostenibile e approvata dal consenso degli elettori se non mettiamo al centro i bisogni fondamentali della persona.