I primi bilanci sulle regole di Olanda e Canada ci interrogano tutti In Olanda il numero delle eutanasie nel 2021 è cresciuto del 10,5% rispetto all’anno precedente, mentre in Canada, nello stesso periodo, l’aumento è stato del 32,4%. Parliamo, per l’Olanda, di 7.666 morti segnalate, pari al 4,5% di tutte le morti del Paese (erano il 4,1% nel 2020), mentre per il Canada di 10.064 decessi, il 3,3% del totale (il 2,5% nel 2020).
I dati ufficiali dei due Paesi, pubblicati da poco, fanno riferimento ai casi complessivi di suicidio assistito ed eutanasia, secondo le definizioni che indicano, rispettivamente, il fatto che la persona che vuole morire prenda da sola il prodotto letale o che glielo somministri il medico: procedure differenti, ma la sostanza non cambia. A prescindere dalle altre informazioni, interessanti e significative, dei report istituzionali, per la morte assistita nei due Stati nel 2021 si conferma quanto già osservato dall’Istituto Cattaneo di Bologna in un suo studio dedicato: dove l’eutanasia è legalizzata, le richieste aumentano costantemente, sempre, a velocità crescente.
Stiamo parlando di Paesi ricchi, con sistemi sanitari efficienti, con terapie e assistenza diffuse e all’avanguardia, secondo i più elevati standard occidentali. Insomma: se l’eutanasia fosse dovuta alle sofferenze fisiche insopportabili di malati senza alternative, come ripetono da sem- pre i suoi sostenitori, allora le domande dovrebbero emergere innanzitutto dai Paesi più poveri, e in fondo alla lista quelli con un buon sistema sanitario; per questi ultimi, poi, le richieste verrebbero dagli hospice, dove sono i malati senza più speranza di guarigione. Ma è scritto nero su bianco che non è così.
Va piuttosto riconosciuto con onestà intellettuale di cosa stiamo parlando, quando si chiedono leggi di questo tipo: non c’entrano questioni mediche, ma culturali. L’eutanasia è il segno più tangibile del nuovo paradigma antropologico dei nostri tempi, segnato dalla volontà di decidere tutto della propria vita, quindi anche della morte, a seconda del sistema valoriale personale. Una mentalità che è penetrata diffusamente nella nostra società, come abbiamo visto ad esempio per il fenomeno dei no vax, di chi cioè protestava contro una presunta 'dittatura sanitaria' in nome della medesima libertà individuale: su me stesso decido solo io. È a questo livello che dobbiamo misurarci, senza timore.
Chi decide sulla mia vita? La risposta sembra ovvia: chi altri può farlo, se non io stessa? Secondo la mentalità corrente le decisioni sulla mia vita, e quindi sulla mia morte, sono private, insindacabili, e hanno come unico limite un eventuale danno agli altri. In altre parole, la questione antropologica che si sta attuando sotto il capitolo dei cosiddetti nuovi diritti individuali ruota intorno a una separazione netta fra sfera privata e pubblica, con una ipotesi implicita: se io non danneggio gli altri, quel che faccio privatamente non ha conseguenze significative per loro, nel pubblico. Ma è proprio questa l’asserzione contraddetta dai fatti, ad esempio – ma non solo – per la morte procurata. L’esito delle leggi che la regolano ha infatti riguardato sicuramente i singoli che vi hanno fatto ricorso, che nel tempo sono cresciuti di numero anche con normative differenti nei diversi continenti: concretamente, laddove l’eutanasia è consentita sempre più persone anziane e/o malate ritengono la morte preferibile alla vita.
E la scelgono. Quindi qualcosa è cambiato, nel sentire comune, a seguito delle scelte individuali dei singoli. E non potrebbe essere altrimenti: le relazioni sono l’ordito dell’esistenza di ciascuno di noi, per dire 'io' lo specchio non basta. E non possiamo controllare o stabilire su chi ricadono le conseguenze delle nostre azioni: non è possibile ignorare il rapporto che esiste necessariamente fra individuo e società, fra privato, personale e pubblico, fra diritti e opportunità, fra doveri e responsabilità.
Dobbiamo stabilire dei criteri per delinearne confini e connessioni e, di conseguenza, costruire l’assetto normativo che regoli il vivere comune. Si chiama politica. Il primo criterio, immediato e applicabile da tutti, è verificare l’esito di questa impostazione culturale, per esempio, nel nostro caso, le leggi sull’eutanasia: che il numero di chi vi ricorre aumenti costantemente pensiamo sia un segnale positivo dalla nostra società? È un obiettivo che i sostenitori di queste leggi vogliono raggiungere? Vogliamo veramente che avvenga anche in Italia quel che accade in Olanda e in Canada?