Di fronte alla muta presenza di tante bare, che hanno raccolto le povere spoglie delle vittime dell’alluvione abbattutasi a Messina nella notte del 1° ottobre, non rimangono che le lacrime e la preghiera. Le lacrime di tutti, dei familiari in primo luogo, oggi svuotati di ogni cosa, degli affetti più cari e dei piccoli grandi beni che ogni casa custodisce, frutto dei risparmi di una intera vita. E poi il dolore per la scomparsa del proprio paese, in cui si è cresciuti, con gli occhi davanti al mare e alle spalle – almeno sino a qualche decennio fa – le colline avvolte da una folta vegetazione e da terrazzamenti di una agricoltura fertile, che le rendevano sentinelle contro le impervie condizioni del tempo. E anche le lacrime di una città, devastata da antiche e nuove ferite, stretta e muta di fronte a questo collasso, espressione violenta di una calamità naturale e dell’imprevidenza degli uomini, segno di una rottura e di una capitolazione dello spirito, quando davvero sembra che tutto si fermi e che non ci sia nulla più da dire. L’irrecuperabile perdita di tante vite umane, seppellite da quel fango diventato il ventre di un mondo opaco in cui riversare dolore e rabbia, demagogia e qualunquismo, richiede il tempo della memoria, mediante cui continuare a onorare le vittime. Volti da guardare a uno a uno: lineamenti sereni, impressi nelle foto rimaste, che ci restituiscono bambini, coniugi anziani, giovani e ragazze, madri, padri, nonni. E nomi da scandire a uno a uno: come è stato fatto, all’inizio della celebrazione liturgica in Duomo, dai parroci dei paesi colpiti. Le lacrime di tutti, epifania della compassione senza misura e senza esclusione, hanno trovato nel silenzio composto e commosso delle migliaia di persone accorse in Cattedrale riunite nella preghiera corale, un momento solenne, che ha avuto il suo acme con l’omelia dell’arcivescovo, monsignor Calogero La Piana. Con forza e con misura queste parole autorevoli e paterne hanno toccato l’anima di tutti, quando hanno invocato per i defunti la promessa di vita eterna nelle braccia del Padre, e per i sopravvissuti la richiesta pressante di sostegno spirituale e materiale, soprattutto di speranza, di diritto a reclamare una messa in sicurezza del proprio territorio, così che la vita possa ricominciare. L’omelia dell’arcivescovo si è così snodata su questo doppio registro: da un lato il pensiero contemplativo del grido di abbandono del Figlio sulla croce, icona universale del dolore di tutte le vittime e di tutte le violenze naturali e storiche. Dall’altro il rifiuto del clamore irriverente di chi continua a strumentalizzare responsabilità sociali e politiche di questa povera terra. Il grido silenzioso delle vittime, ha continuato l’arcivescovo, sia invece di richiamo a una speranza forte, coltivata dalla promessa di riscatto dell’amore di Dio verso i suoi figli e alimentata dalla fiducia che le istituzioni si incarichino di gestire con oculatezza e lungimiranza un territorio troppe volte deturpato dall’incuria degli uomini e dalle distrazioni della politica, «questo territorio unico e affascinante» (come ha detto monsignor La Piana, più volte sostenuto dal caldo applauso della sua gente). Le lacrime e la preghiera nella Cattedrale di Messina hanno così potuto rintracciare nelle parole del suo pastore una direzione di significato profondo, incarnando il bisogno di estrema compassione per i morti e di estrema solidarietà per i feriti e i sopravvissuti, perché ritrovino, nel momento della prova e dell’incertezza, le potenti ragioni della rinascita.