Qualcosa in noi insorge. Sì, nel vedere le notizie circa le foto scattate alla povera Eluana poco prima che morisse da coloro che avevano avviato il 'protocollo' per porre fine alla sua vita. Foto clandestine, e non solo per infrazione al suddetto macabro 'protocollo' ma per lo strano dispregio che avvertiamo in quel gesto fatto furtivamente, addirittura in presenza di chi è medico e di chi è pagato coi soldi di noi contribuenti per lavorare a un’informazione imparziale che proprio in quei giorni imparziale fu per niente. Qualcosa insorge, forte, inutile negarlo. Una specie di ira. O di sgomento che vorrebbe trovare le parole per non esprimere solo rabbia. È una specie di magone che vorrebbero farci dimenticare in fretta per la vita di quella ragazza, e che erompe in una amara incredulità. Come hanno potuto? Non ce l’hanno voluta far vedere, mentre di lei, del suo corpo e dell’onore della sua persona si discuteva in tutto il Paese. E mentre i medici che la curavano a Lecco testimoniavano di un 'buono stato' del suo fisico, il medico che la 'prendeva in consegna' a Udine parlava di devastazione, e ne parlavano giornalisti compiacenti. Mentre, come curiosi che passano di fronte a qualche vip o a qualche strano fatto, la fotografano morente. Non ce l’hanno fatta vedere vivente, e poi l’hanno fotografata durante le ultime ore di agonia. Ancora qualcosa che non torna in questa vicenda che ha segnato la coscienza collettiva. La magistratura a tamburo battente ha già ingiunto ai carabinieri di restituire le foto, ma il tribunale interiore della nostra umanità non può che condannare quel gesto. Dicono di esser stati spinti da motivi di documentazione. Ancora una volta evocano nobili scuse per un gesto fatto furtivamente, lontano dagli occhi di tutti noi, mentre contro i nostri occhi veniva gettato il fumo di parole distorte, di mezze notizie, di grandi menzogne. Ma noi, ancora una volta, soprattutto tremiamo per lei, per Eluana, la ragazza che ora sappiamo sempre meglio è stata usata per una battaglia ideologica sulla vita umana. Usata fino alla fine. Fino a rubarle foto in punto di morte. E dunque qualcosa insorge, una specie di ira. Eppure vogliamo, ancora una volta, che l’ultima parola non sia dell’ira ma della pietà. Per lei, e quindi per noi tutti, per la nostra fragile condizione umana, quella condizione che per certuni è solo occasione di scandalo ed è da occultare, far sparire, eliminare, e che invece per noi è fonte di apertura al mistero, fonte di pensiero, e, infine, di pietà. Vogliamo ancora una volta che domini non l’ira per la violenza di alcuni ma la passione per il destino di lei. La compassione. E quindi sapere che ha subìto anche quest’ultima ingiuria ce la fa sentire più cara, più importante, più indifesa. Che ne abbiano fatto oggetto anche di questa ultima violazione di dignità (cosa è fotografare un morente? ci sembra di vederli, furtivi…) fa aumentare ai nostri occhi la dignità della sua persona, e del suo sacrificio. E le parole che sarebbero solo d’ira si trasformano, per quanto duramente, in parole di onore per lei. In silenzio di preghiera per lei, che era la 'cosa' importante, la 'cosa' centrale, la 'cosa' non da fotografare ma da amare e accudire. E per quanto quella oscura lobby della morte ha lavorato per violare il significato delle parole, per divaricarle dal loro reale significato, per confonderle, noi proveremo ancora a riportare le parole dall’ira alla pietà, dallo scontro alla ricerca dell’incontro. E dal disonore all’onore. Oggi più di ieri c’è in gioco per tutti – anche per coloro che su questa vicenda hanno avuto pensieri e posizioni diversi dai nostri – lo sguardo con cui guardiamo la vita ferita, la vita colpita. Se con il distacco cinico di chi fotografa chi sta morendo o con la passione di chi non lascia nulla di intentato, nel rispetto della dignità e del valore invisibile e infinito della vita di ogni persona.