Caro direttore, il disorientamento dei tempi che viviamo, assieme alla consapevolezza che la politica debba riallacciare un rapporto nuovo con i cittadini, sta riportando nel dibattito culturale e politico il tema del popolarismo. Popolarismo versus populismo. Spesso lo si fa giocando sui nomi, a volte anche senza una precisa consapevolezza delle differenze. C’è l’occasione concreta della celebrazione, il 18 gennaio, del centenario dell’«Appello ai Liberi e Forti» che segnò la nascita del Partito Popolare Italiano, a opera di un gruppo di cattolici coraggiosi e intelligenti guidati da don Luigi Sturzo, che può aiutarci. Sia chiaro, non credo che oggi si possa riproporre sic et simpliciter la stessa operazione, essendo assai diverse le condizioni storiche, anche se vi sono alcuni insegnamenti preziosi che si possono trarre da un’iniziativa politica che non a caso alcuni osservatori, anche avversari politici, definirono sin da subito come «la più rilevante novità» della politica italiana all’inizio del Novecento: alludo ai giudizi di Gramsci, Salvemini, Turati, senza dire di quelli di importanti studiosi a partire da Federico Chabod sino a Emilio Gentile, ancora pochi giorni fa.
Perché fu un’iniziativa politica importante? Perché delineò una modalità strutturata di superare quel Non expedit che aveva impedito per decenni ai cattolici italiani di partecipare pienamente alla vita politica del Paese. Ma, nondimeno, perché nacque un partito a quel tempo sicuramente inedito, un partito che non c’era, né clericale né laicista, a ispirazione cristiana ma aconfessionale, 'verticale' non solo perché fatto di uomini liberi e risoluti, ma perché univa la profondità del pensiero all’altezza di un disegno di futuro, non ideologico, non rivoluzionario, non velleitario, ma modernamente riformatore, un partito del territorio ma anche dello Stato, non internazionalista ma con uno sguardo europeo, pacifista ma non neutralista, non liberista ma costruito attorno al principio-cardine della libertà, non centralista ma profondamente autonomista, un partito che non mitizzava l’idea di popolo sino a farne una categoria astratta e strumentale, ma profondamente radicato nel tessuto sociale e popolare. Un partito non improvvisato: Sturzo ne delineò infatti i contorni nel famoso discorso di Caltagirone del dicembre 1905 e lo condusse in porto quasi quattordici anni dopo, il 18 gennaio 1919, appunto.
Ma, cos’era per Sturzo il popolarismo? Era essenzialmente il protagonismo sociale del popolo e la capacità della politica di sentirsene espressione. Se il popolo era dunque il motore del processo politico, gli uomini politici dovevano dimostrare di sapere mettere 'le mani nella morchia' di quel motore. Se per Sturzo lo Stato era la struttura organizzativa della società, potremmo dire che il popolarismo rappresentava invece la dimensione politica del popolo-attore sociale. Il prete di Caltagirone era infatti solito elencare con numeri precisi le migliaia di cooperative agricole ed edilizie realizzate in tutto il territorio nazionale dai cattolici durante i faticosi anni del Non expedit, delle casse rurali, delle mutue assicurative, dell’associazionismo culturale e sociale, sicché quando comparve sulla scena politica il Partito Popolare nel 1919 poté limitarsi a raccogliere, cioè mettere insieme questa densissima rete sociale e darle rappresentanza e proiezione politica. Il popolarismo è, dunque, il popolo che si fa attore po-litico, mentre il populismo è l’utilizzazione- strumentalizzazione del popolo civicamente passivo a fini politici.
Per questo l’idea centrale che il popolarismo porta alla politica di quegli anni è stata la lotta al centralismo e la valorizzazione dell’autonomismo comunale e regionale. Che era un’idea di Stato democratico, 'vissuto', soprattutto nelle sue periferie, attraverso una politica partecipata e preparata a livello locale dove la politica è veramente democrazia. E, conseguenza logica, la richiesta di passare a un Senato elettivo che si aggiungesse alla Camera, con l’introduzione del suffragio universale vero, cioè con anche il voto alle donne, e un sistema elettorale proporzionale. Il popolarismo fu poi un tentativo intelligente di riconoscere e collocare in modo corretto le soggettività originarie: prima c’è la persona, poi i corpi intermedi, poi la comunità locale, poi quella provinciale, poi quella regionale, poi quella statale nazionale, poi quella sovrastatale europea. E in tal modo, diremmo oggi, viene delineata una corretta prospettiva federalista. Dal basso. Le istituzioni così non saranno mai 'non rappresentative della volontà popolare', perché ne sono naturalmente la sua espressione. Ma perché non vi sia separazione fra popolo e Stato occorre delineare un severo contesto di moralità pubblica, che è fatta sia di rispetto dei ruoli istituzionali (i partiti non possono mai interferire con le responsabilità autonome del Governo e del Parlamento), sia di continua educazione al valore della legalità, sia infine di selezione del personale politico con severi criteri di verifica del possesso delle virtù etiche soggettive necessarie a gestire la casa comune.
Sarebbe interessante, se oggi si vuole cominciare a discutere di una concezione 'popolare' della politica, cominciare proprio da queste idee sturziane. Per quanto riguarda il Ppi poi, lo sappiamo bene, le cose andarono in un certo modo: dopo cinque anni da quelle prime elezioni del 1919 in cui i popolari elessero un centinaio di deputati, Sturzo fu costretto all’esilio a causa di una gravissima complicità della Segreteria di Stato con Mussolini che individuò proprio in Sturzo il più insidioso avversario del suo disegno politico e due anni dopo, nel 1926, il Ppi come gli altri partiti d’opposizione, venne messo fuori legge e i cattolici italiani furono costretti a continuare il lavoro politico chi in esilio in diversi Paesi europei, chi restando in Italia ma operando in clandestinità per tutta la durata dell’attraversamento del deserto del regime fascista.
Sturzo tornò in Italia – dopo le esperienze di esilio a Londra e a New York e vari soggiorni di studio e di collegamento politico a Parigi, Bruxelles e Barcellona e con una produzione bibliografica di una sessantina di testi alcuni dei quali ancora oggi studiati in università americane – solo nel 1946, ad Assemblea costituente avviata. Non mancò però, sino alla sua morte avvenuta nel 1959 (quest’anno ne celebriamo il sessantesimo), di partecipare al dibattito politico con suggestioni originali e spesso severe. Ma è doveroso non dimenticare che, di fatto, Sturzo fu anche importante innovatore sul piano ecclesiale, se si pensa che anticipò di quasi sessant’anni le indicazioni di alcune costituzioni del Concilio Vaticano II ( Gaudium et spese Lumen gentium) nel teorizzare e praticare l’autonomia dei laici cristiani nell’impegno politico. Lezioni a cui attingere, dunque, ne ha lasciate non poche.
*Presidente Associazione nazionale 'I Popolari'