Sei bare avvolte dal tricolore sul C130 dell’Aeronautica militare in volo da Kabul per Roma. Nel rumore assordante dei motori, nell’alzarsi lento del pesante apparecchio grigioverde, quelle bare portano il lutto dell’Italia. Ma è un lutto e un dolore che ci interroga, quello che verrà accolto domattina nel funerale a San Paolo fuori le Mura. Abbiamo visto le madri, le sorelle di questi ragazzi parlare, nel dolore vivo, con orgoglio dei loro morti. Una ha detto: sono fiera di lui. Un’altra: mio figlio è morto per la patria. E noi, noi siamo così disabituati a sentire pronunciare questa parola, che rischiamo di restare a guardare senza capire.Siamo un Paese che da oltre sessant’anni, grazie a Dio, non conosce la guerra. Il servizio alla patria, la fierezza di questo servire, possono sembrarci parole desuete nelle pagine ingiallite della storia. E anche che sei ragazzi dei nostri siano andati a morire in quell’incrocio polveroso di macerie e disperazione che è Kabul, a qualcuno in realtà appare tanto doloroso quanto insensato. Perché? C’entriamo noi forse, con gli odi antichi e poderosi che percorrono come radici quella terra lontana? Noi, ogni lunedì, piangiamo, d’abitudine, altri morti: adolescenti finiti sull’asfalto di una curva presa a centottanta all’ora, al ritorno da una discoteca.Ma nel lutto attorno alle sei bare si affaccia qualcosa di altro, oltre al puro strazio. Come un orizzonte di senso, che sembra chiaro nei pensieri delle mogli e delle madri dei morti. Ha detto l’altro giorno il generale Alberto Ficuciello, padre di Massimo, morto a Nasiriyah: «Nel mondo dei militari il dolore assume forme particolari, diverse. Perché è legato alla consapevolezza di avere dei compiti da svolgere, alla lealtà verso i propri compagni. Anche un soldato piange, ma è un pianto di un altro genere».Nel nostro mondo in pace, dove ogni settimana troppe famiglie perdono un figlio sulle strade notturne, lo strano affacciarsi e rendersi pubblico di uno strazio uguale, ma vissuto dentro a un senso certo e ordinato. Madri capaci di dire che, di quel figlio perso, sono orgogliose. Perché era andato laggiù a fare qualcosa in cui credeva; a tentare di riportare un po’ di pace in un Paese, dove i ragazzi la pace non l’hanno mai conosciuta.Un orizzonte di senso: ciò che sembra mancare alle nostre stragi del sabato, quando i fari delle auto della polizia lampeggiano sull’asfalto e sui resti di lamiere contorte. E non sappiamo come siano le albe, nelle case in cui arriva quella notizia. Ma temiamo che solo una profonda e radicata fede – e c’è da pregare che l’abbiano ancora in molti – possa reggere l’urto di una disgrazia così; e che altrimenti il dolore rischi di precipitare in un abisso annichilito.I genitori mutilati del lunedì mattina, forse più orfani che quelli dei sei ragazzi di Kabul. Perché quei sei, avevano messo tutto nel conto: la fatica, il pericolo, anche la morte. Eppure erano partiti. Dentro a un orizzonte ampio, a una solidarietà condivisa. In uno stare al mondo che contempla anche la possibilità del sacrificio di sé. Ma non per sfida, o per gioco; per un senso buono.Li abbiamo visti tre anni fa, a Camp Invicta a Kabul, gli italiani, mangiare nella mensa che odorava di sugo, mentre suonavano le canzoni di Ligabue e appeso al muro, muto, stava il crocefisso con l’ulivo della domenica delle Palme. Avevano le facce serie e tranquille di chi sta lì, perché ci crede. Abbiamo pensato: sembra, tra questi tavoli, quasi d’essere in Italia: ma in un’Italia non rancorosa, non ostile, non sterilmente divisa. Un’Italia capace di andare a scavare i pozzi dell’acqua nei villaggi, a costruire le scuole per i bambini e di stare in armi senza odio. Un’Italia buona. E forse è questo che in molti oggi intuiscono, e vanno perciò a rendere omaggio a quei morti. Come desiderando un’altra Italia. Come nel tacito desiderio di un orizzonte comune.