Nei mesi che avevano preceduto la Cop 21 parigina del dicembre 2015, come 'inviato speciale' dell’Eliseo per le questioni climatiche, l’ambientalista francese Nicolas Hulot era stato fra i principali artefici del successo dell’Accordo sul clima di Parigi: un indimenticabile momento di comunione internazionale e di speranza per il decollo di una diplomazia climatica davvero credibile. Poco meno di 3 anni dopo, l’accordo è stato ratificato da 180 Paesi sui 197 aderenti alla convenzione Onu sul clima, ma le clamorose dimissioni dello stesso Hulot dall’incarico di superministro francese per la Transizione ecologica e solidale hanno appena inviato al mondo un segnale politico allarmante. Tornando ad indossare i panni del militante ambientalista, Hulot ha denunciato a cuore aperto i 'piccoli passi' della Francia di fronte alle grandi sfide ecologiche, con disappunto del presidente Emmanuel Macron, paladino autoproclamato di un multilateralismo cosciente dei rischi planetari incombenti enfatizzati dall’Onu.
Dopo la decisione statunitense dell’anno scorso di voltare le spalle all’accordo (ma con un’uscita possibile, giuridicamente, non prima del 2020) e il posizionamento sostanzialmente refrattario appena annunciato pure dall’Australia, le tensioni ai vertici emerse in Francia confermano quanto sia difficile concretizzare le promesse messe nere su bianco a Parigi nel 2015: ovvero, applicare un esteso piano di misure per limitare 'nettamente sotto i 2 gradi', anzi auspicabilmente sotto gli 1,5 gradi, il surriscaldamento planetario medio nel secolo in corso, misurato da decenni in modo ormai incontestabile e considerato d’origine umana da una larga maggioranza di scienziati. La firma dell’accordo di Parigi ha aperto la strada a negoziati più tecnici, ma altrettanto cruciali, sull'armonizzazione delle riduzioni nazionali nell'emissione dei gas a effetto serra, così come sulle garanzie per una trasparenza del processo, grazie a bilanci periodici affidabili.
Le ultime conferenze mondiali sul clima, la Cop 22 di Marrakech e la Cop 23 di Bonn, hanno provato ad avviare e precisare l’attuazione pratica, con risultati molto parziali che alimentano ora un’attesa spasmodica verso la Cop 24, prevista a dicembre a Katowice, in Polonia. Come in passato, certi nodi potrebbero sciogliersi solo nelle ultime ore notturne dell’evento, sotto la pressione congiunta dell’Onu, delle ong e dell’opinione pubblica. Fra gli stratagemmi trovati nel 2015 per facilitare l’accordo, si annida un paradosso: pur condividendo ufficialmente lo stesso obiettivo generale, tutti gli Stati, al momento delle ratifiche interne, restano liberi di fissare i propri sforzi, senza rischiare successive sanzioni. Come si temeva, dalla somma di queste scelte nazionali non è scaturito l’impegno generale sperato. In effetti, le proiezioni attuali a cura del nutrito gruppo di esperti dell’Onu (Ipcc) conducono teoricamente verso un aumento superiore ai 3 gradi. Certo, si sono fatti virtualmente passi in avanti rispetto ai peggiori scenari ipotizzati in passato, con un surriscaldamento planetario anche di 4 o 5 gradi. Ma per i Paesi insulari e in generale quelli più fragili, è in ballo la sopravvivenza, come continuano a ripetere a chi vuole ascoltarli.
Per correggere collettivamente il tiro, gli Stati disporranno a dicembre di un nuovo rapporto scientifico speciale dell’Ipcc. Un documento che valuta l’impatto per l’uomo e l’ambiente in caso di superamento degli 1,5 gradi. Riguardo ai tempi, secondo le prime bozze del rapporto, gli esperti considerano che il mondo si avvia attualmente a raggiungere la soglia fatidica già verso il 2040, a meno di una decisa sterzata. Concepita per costringere gli Stati a un confronto politico franco e per ridare slancio a tutto il processo, la conferenza in Polonia viene già indicata da molti come l’ultima spiaggia per mantenere il pianeta sui binari di Parigi. L’esame di coscienza rischia d’infiammare le discussioni, anche perché il successivo appuntamento politico di tappa del genere è previsto solo nel 2023. A Katowice, non a caso, la discussione prenderà anche la forma di un 'dialogo di Talanoa', dal nome delle assemblee inclusive organizzate tradizionalmente nelle Isole Figi, ovvero lo Stato posto simbolicamente alla presidenza dell’ultima Cop in Germania. L’evento, nello spirito dell’Onu, dovrà andare al sodo e spazzare via gli infingimenti.
I segnali più incoraggianti provengono dalle iniziative e dal ruolo di pungolo delle società civili, talora in chiave apertamente antigovernativa. Dalle viscere degli Stati Uniti, a dispetto della Casa Bianca, è emersa una vasta ondata d’impegno, alimentata da amministrazioni locali e metropolitane di ogni rango, imprese, ong. La cordata We are still in riunisce oltre 2.500 entità decise a far rispettare, in un modo o nell’altro, l’iniziale impegno americano di ridurre le emissioni di almeno il 26% entro il 2025, rispetto ai livelli del 2005. Grazie a questa vigorosa spinta dal basso, gli Stati Uniti potrebbero farcela, anche se non sarà facile, secondo l’Onu. Nel frattempo, le dimissioni di Hulot hanno ispirato un nuovo appello di un collettivo di 200 personalità internazionali prevalentemente dello spettacolo, pubblicato in Francia da Le Monde: «Molte altre battaglie sono legittime. Ma se questa è perduta, nessun’altra potrà essere combattuta», scrivono figure come Wim Wenders, Jane Campion, Patti Smith, Charles Aznavour, John Turturro.
L'organismo Onu incaricato della diplomazia climatica (Unfccc) ha appena evidenziato che gli ultimi mesi di preparazione in vista della Cop 24 saranno decisivi: «Sulla base dei progressi realizzati, i Paesi devono ora compiere un decisivo passo in avanti nella preparazione dei risultati ambiziosi ed equilibrati di cui abbiamo bisogno a Katowice», ha lanciato la messicana Patricia Espinosa, al timone dell’Unfccc, riferendosi in particolare all’ultima riunione preparatoria di Bangkok (4-9 settembre). Accanto al principio di riduzione delle emissioni, potrebbe ravvivare a dicembre tensioni internazionali pure un altro grande principio avallato a Parigi, ovvero la costituzione di un fondo mondiale per l’adattamento al cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Già adesso, sembra un nervo scoperto. Secondo le stime prevalenti in circolazione, verificate recentemente dall’ong Oxfam, la comunità internazionale avanza molto lentamente verso i 100 miliardi di dollari promessi annualmente dai Paesi ricchi a partire dal 2020. Alla luce dei progetti visti finora, suscita perplessità pure la forma presa spesso da questo nuovo capitolo della cooperazione internazionale, ovvero dei trasferimenti tecnologici iscritti sotto il cappello climatico in modo poco coerente o persino abusivo. Intanto, le spie climatiche d’allerta prendono anche la forma di fenomeni estremi, come le inedite fessure che si sono aperte nella calotta polare artica a nord della Groenlandia. Segnali e immagini che molti faticano ancora ad associare alle inerzie negli stili di vita poco sostenibili dominanti soprattutto nei Paesi più ricchi.