Ritroviamo il senso delle proporzioni. Perché il caso è serio. E viene prima di ogni casistica, dice Francesco. (Non potremmo, tanto per cominciare, prenderlo sul serio in tutta l’ampiezza del suo insegnamento, gli ecclesiastici per primi, naturalmente)? In questo momento, forse, sta venendo definitivamente allo scoperto proprio questo: i temi – e i problemi – del rapporto fra uomo e donna, sesso e generazione,
bios e
psiche, iniziazione familiare e legame sociale, non definiscono semplicemente le nostre visioni morali. Decidono la considerazione che abbiamo del genere umano. Decidono il sentimento della vita che siamo pronti a trasmettere alle generazioni. Non dovremmo ragionarne tutti come di un tema serio, irriducibile alle sole questioni delle definizioni formali o dei diritti civili, ossia come un problema serio per l’umano che ci è rigorosamente comune, quali che siano le nostre individuali scelte di vita? Non c’è dubbio, del resto, che la stessa forma cristiana abbia accompagnato e abitato diverse “forme”, storico-culturali e politico-civili, dell’istituzione familiare. E non c’è dubbio che, oggi, la “forma” dell’istituzione familiare rappresenti un punto di crisi: mondiale, dice il Papa. Possiamo perciò capire Francesco quando dice ai giornalisti sul volo di ritorno dalla Terra Santa, con la consueta schiettezza: «A me non è piaciuto che tante persone – anche di Chiesa, preti – hanno detto: “Ah, il Sinodo per dare la comunione ai divorziati”, e sono andati proprio lì, a quel punto. Io ho sentito come se tutto si riducesse a una casistica. No, la cosa è più ampia». Il Sinodo – ribadisce il Papa – «sarà sulla famiglia: le ricchezze, i problemi della famiglia». Milioni e milioni di uomini e donne, che si vogliono bene e tirano su creature, lottando – ogni giorno – con le tensioni e i fallimenti dei loro legami d’amore, sanno di che cosa si parla. Ma l’inerzia (inerzia?) delle agenzie mediatiche riassume troppo disinvoltamente tutto il tema in quel punto. E gli ondeggiamenti (apologetici o polemici) dell’opinione religiosa si accendono troppo spesso soltanto su quel punto. In verità, a volerlo ascoltare, nella sua grammatica apparentemente informale, ma in realtà così appassionatamente centrata sulla forma cattolica, il Papa sta facendo lievitare gli affetti della Chiesa su ben altre profondità, e su ben altra ampiezza. Del resto, era ora che la famiglia e i suoi problemi – anche quelli religiosi e cristiani – si conquistassero il centro della scena civile ed ecclesiale. Con la scusa che andava da sé, quel sacrosanto lavoro dell’amore che si chiama famiglia si è visto sopravanzare per troppo tempo da temi di emergenza sempre più epocali e più urgenti di lei. Il Papa le assegna ora una posizione di assoluto rilievo, convocando la Chiesa sul punto – e chiedendole intelligenza e amore, indisgiungibilmente – per almeno due anni filati. La sfida è ampia e alta. Scelgo, per rilanciare l’appello del Papa, un’espressione assolutamente icastica di Francesco, che dà la chiave. Il nemico, ha detto – nel “discorso del diavolo” consegnato all’assemblea del Rinnovamento dello Spirito – cerca di distruggere la famiglia in questo modo: «Cerca di far sì che l’amore non sia lì». Dovunque, in qualsiasi forma, ma non lì. Come se proprio lì, fosse destinato a morire. Mentre invece, proprio lì, dovrebbe essere capace di vivere e di far vivere ogni amore. Il pregiudizio nei confronti dell’anacronismo dell’amore matrimoniale-familiare, nutrito dall’accumulo di troppa distrazione politica (e anche ecclesiale), non sarà certo vinto da un’improvvisata batteria di slogan devoti che enfatizzano la sua estetica, senza la dedizione ideologicamente disinteressata che è necessaria per prendersi cura della sua drammatica. Una visione più adeguata dell’irrinunciabile dovrà sostenere la coraggiosa ricerca dei rimedi richiesti dall’imprevedibile.La forma di Chiesa, in ogni caso, si dovrà affettuosamente e generosamente ricomporre intorno al miracolo dell’ominizzazione che lì si compie: per non mortificarne le luci che vi nascono, a dispetto delle ombre e delle povertà che lo circondano e l’accompagnano. Proprio come i pastori intorno alla capanna di Betlemme. Con tutta la necessaria empatia per la storia – e le storie – di legami che appaiono tanto profondamente umani e tanto costitutivamente vulnerabili, al tempo stesso. Perché se non sarà di nuovo affettuosamente domestica, quanto deve essere trasparentemente evangelica, la Chiesa non sarà quello che deve.