All’indomani del referendum lo scontro tra la Catalogna e lo Stato spagnolo si avvia a una fase cruciale. Il presidente catalano Carles Puigdemont pare intenzionato a convocare il Parlament per procedere alla dichiarazione unilaterale di indipendenza, il premier spagnolo Mariano Rajoy si dice disposto al dialogo, ma solo a patto che si rinunci a uscire dal tracciato costituzionale, che nega il diritto di secessione. I due governi sostengono di avere ottenuto un successo, quello catalano perché si dice convinto che i cittadini abbiano confermato la scelta di rottura, quello spagnolo perché ritiene fallito il referendum illegale. In realtà ambedue hanno subito una sconfitta, e devono affrontare una situazione difficile in condizioni assai poco incoraggianti anche per quel che riguarda la loro capacità di reggere all’interno delle loro comunità.
La coalizione separatista che sostiene l’esecutivo catalano è unita (e non si sa se lo sia fino in fondo) solo sulla scelta secessionista. Per il resto, sulle scelte politiche ed economiche fondamentali, tra l’ala sinistra della coalizione e il partito moderato di Puigdemont non c’è alcun punto di contatto. Anche l’accordo istituzionale dei partiti costituzionali spagnoli, il Partito popolare, quello socialista e la formazione di Ciudadanos (particolarmente forte proprio in Catalogna) è piuttosto fragile. Rajoy ha svolto ieri pomeriggio incontri separati con i segretari degli altri due partiti, per verificare la possibilità di adottare un atteggiamento comune di fronte alla ribellione catalana, probabilmente cercando di capire se in caso di proclamazione dell’indipendenza potrà avvalersi dell’articolo 115 della Costituzione che permette di sospendere l’autonomia della regione.
Non è detto che ottenga il via libera per questo passaggio, che Podemos reclama e il Psoe non vuole per ora accettare, che implicherebbe una assunzione da parte del Governo centrale dei poteri attualmente esercitati dalla «Generalitat» e che provocherebbe senza dubbio reazioni assai accese. La stessa maggioranza di governo, inoltre, è a rischio, visto che per far approvare le leggi di bilancio avrebbe bisogno, oltre che del sostegno già ottenuto di Ciudadanos, di quello del Partito nazionale basco, che aveva condizionato l’assenso a un atteggiamento non brutale dell’esecutivo sulla questione catalana. Questo sostegno dunque difficilmente sarà ottenuto e se i socialisti non cambieranno opinione sulla loro ferma opposizione a Rajoy, c’è il rischio concreto di una crisi di governo e di elezioni nazionali anticipate, proprio nel mezzo della più grave crisi istituzionale. Si parla molto di una 'mediazione', ma anche questa strada è assai accidentata.
La Catalogna chiede una mediazione internazionale, dell’Unione Europea per cominciare, ma naturalmente tutte le istituzioni che intrattengono relazioni ufficiali con lo Stato spagnolo non possono ingerirsi in quelli che restano, come ha ripetuto ieri la Commissione europea, «affari interni», pur con un accenno critico verso il governo di Madrid sulle violenze che hanno caratterizzato la giornata referendaria. Quel che conta è che si è confermato che un eventuale Stato catalano dovrebbe presentare domanda di adesione all’Unione Europea, avviando un iter complesso e sottoposto al diritto di veto di Madrid. È in sostanza inibito anche un intervento mediatorio del capo dello Stato, il re Filippo VI, la cui autorevolezza personale cozza con l’orientamento radicalmente repubblicano delle formazioni politiche catalaniste.
Probabilmente si potrà aprire qualche spiraglio di dialogo solo se i protagonisti si renderanno conto di aver subito entrambi una sconfitta. I dati esterni, come l’elevamento del differenziale di cambio con la Germania e la caduta dei corsi borsistici, dovrebbero far suonare a Madrid come a Barcellona un campanello di allarme. D’altra parte è difficile anche immaginare una soluzione accettabile da entrambe le parti: c’è chi parla di una modifica della Costituzione in senso federalista, ma questo non basterebbe ai catalanisti, che forse accetterebbero una sorta di confederazione, cioè una unione volontaria e sempre scindibile tra entità istituzionali indipendenti. Intanto la tensione non cessa di salire, per oggi è stato proclamato uno sciopero generale politico in Catalogna e questo segna una tendenziale rottura anche all’interno delle confederazioni del lavoro, mentre le organizzazioni padronali catalane insistono nel chiedere una trattativa, che allo Stato degli atti appare impossibile.
La psicosi collettiva del settore più attivo del separatismo si contrappone a una apatia preoccupata della parte contraria, mentre nel resto della Spagna si diffonde una specie di fastidio che si può trasformare in ostilità. Evitare che questi sentimenti si cristallizzino, lasciare aperta una via per la comprensione reciproca è una condizione preliminare per creare le condizioni per una ripresa del dialogo. Questo terreno culturale non è secondario: proprio perché ci si attende nei prossimi giorni un accrescimento delle tensioni istituzionali sarebbe essenziale che queste non diventino l’argomento o il pretesto per estendere la contrapposizione alle popolazioni, il che renderebbe poi ancora più difficile una qualsiasi ricucitura.