Le ferite sono il segno dell’amore, se sono patite per amore. Per quanto non finirà mai di apparire scandaloso che l’amore esponga alle ferite, anche mortali, esse sono la sua prova di forza.L’amore viene aggredito e guarito continuamente, sulla terra, dalle sue ferite. Non ne puoi venire a capo, di questo enigma, per quanto ti ci consumi il cervello. Eppure sai che è vero. Sempre. Puoi dubitarne ogni volta, certo, come l’apostolo Tommaso: che è diventato famoso, per questo, anche fra quelli che il Vangelo non l’hanno mai letto. Puoi dire a te stesso che la prossima volta non ti farai prendere dall’emozione, e che le ferite non hanno mai guarito nessuno. Oppure, vuol dire che non erano ferite. L’amore vive, l’amore ha senso, l’amore vale il suo slancio solo quando sono tutti belli e sani, giovani e forti. Altrimenti, meglio svignarsela. O colpire per primo. Gesù crocifisso e risorto se ne sta lì, fra le porte scorrevoli che separano e congiungono l’amore terreno e la vita eterna, a sfidare l’ottusità e la rassegnazione, l’incredulità e il cinismo, la pavidità e la presunzione, con le quali cerchiamo di aggirare il misterioso legame dell’amore e della vita, che rende credibile la sua speranza, mostrando le sue ferite. Il Signore crocifisso è il sigillo inconfutabile dell’amore terreno di Dio, la prova del legame irrevocabile fra la vita di Dio e l’amore dell’uomo. Per comprendere l’enormità della risurrezione di Gesù, alla quale siamo destinati, è necessario che essa riguardi il corpo dell’uomo: ferito, oltraggiato, avvilito, martoriato e ucciso, persino, per amore. Per questo, i segni della croce sono indispensabili al riconoscimento del risorto. Gli antichi Padri del cristianesimo respinsero la seducente dottrina dell’umanità del Figlio come "finzione" di Dio, il cui puro amore non può essere "violato" da alcuna ferita, appellando a un solo, decisivo argomento: se il Figlio ha veramente sofferto, Dio ci ha veramente amato. Il Papa Francesco, commentando le sacre scritture della Messa di canonizzazione dei beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ha ricordato che la capacità di rimanere ben saldi nella contemplazione di questo misterioso legame è la sorgente di ogni vero coraggio dell’amore e di ogni vera compassione del dolore. Assimilare in se stessi la potenza di questo legame sottrae al calcolo delle convenienze e delle inconvenienze dell’amore, che rendono l’animo piccolo e vile: inadatto alla parresia, ossia alla franchezza che viene dalla libertà dello Spirito, e incapace dei miracoli di agape, ossia della potenza di guarigione che viene dalla misericordia di Dio. Che cosa andiamo a vedere, dunque, quando andiamo a vedere i santi? L’icona di un’anima bella e ignara che non conosce il dolore? Un’anima bella e ignara non sa nulla dell’amore. Ed è incapace di compassione. No. Noi andiamo a vedere «uomini coraggiosi», che non hanno avuto vergogna della carne martoriata del Cristo e si sono consacrati alla testimonianza di un amore il cui Spirito fa vivere anche le ossa più aride, e fa risorgere anche dalle ferite più orribili. Noi andiamo a vedere uomini che «sono stati sacerdoti, vescovi e papi del XX secolo», ne hanno «conosciuto le tragedie e non ne sono stati vinti». E perciò hanno restituito alla speranza e alla gioia, «che hanno ricevuto in dono dal Signore risorto», l’intero Popolo di Dio. E anche molti altri. Uomini che hanno collaborato con lo Spirito Santo «per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria»: quella stessa che altri «santi», nel corso dei secoli, hanno plasmato e continuano a rigenerare. Uomini «docili» allo Spirito, appassionati per la famiglia umana, rocciosi il giusto nei confronti della fede in Dio: senza la quale la Chiesa non vive e il mondo si accartoccia su se stesso. Papi, in questo caso, i santi che siamo andati a vedere. E non per caso. D’ora in avanti ognuno – i Papi, come tutti noi – ci si dovrà rispecchiare.