giovedì 4 febbraio 2010
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Nella sua prolu-sione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana del 25 gennaio scorso il cardinal Bagnasco ha dato pubblicamente voce a quello che egli stesso ha definito «un sogno a occhi aperti», e cioè la speranza che sorga «una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente entro di essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni». Parole dense e forti, queste, che meritano un’attenta considerazione da parte di quanti, come credenti, intendono essere parte viva della società italiana. Una considerazione preliminare si impone. Il presidente della Cei non esprime un giudizio critico sul recente passato – e anzi incoraggia i cattolici attualmente impegnati in politica a essere «sempre coerenti con la fede» – ma quel «sogno», e dunque quell’auspicio, esprime indirettamente una valutazione nel complesso non positiva dell’attuale fase della presenza dei cattolici nella società italiana. E chi non si sente di condividere questo giudizio complessivamente critico (che pure non deve suonare come una sorta di «dichiarazione di fallimento» dell’attuale impegno dei cattolici)? Troppo marcate e laceranti appaiono infatti, ancor più che le separatezze, le contrapposizioni frontali, le asperrime polemiche, le reciproche demonizzazioni. È ormai acquisito – dai testi conciliari alla Octogesima adveniens – che dalla medesima fede possono essere dedotte, nella legittima autonomia della politica, differenti scelte di campo: ma ciò non dovrebbe comportare la conflittualità, la litigiosità, la reciproca insofferenza che caratterizzano oggi i rapporti fra i cattolici impegnati in politica. Ecco dunque il «sogno» (non solo del cardinale, crediamo): il sogno di una generazione nuova di cattolici impegnati nel sociale. Proprio qui, tuttavia, sta il problema. Come suscitare queste «vocazioni alla politica» all’interno di una cattolicità, quella italiana, fortemente contagiata da quella stessa mentalità privatistica che sta progressivamente desertificando pressoché tutti i luoghi della partecipazione? Se non fosse per le ricorrenti, ma insieme rapsodiche, consultazioni elettorali, dove e quando si parlerebbe seriamente dei problemi della comunità, e dunque di politica? Non valgono certo a compensare questi silenzi i rissosi e convulsi chiacchiericci televisivi, diventati ormai il «luogo» (che in realtà è un «non luogo») eminente della politica. Essa sembra essersi trasferita ormai dalle piazze – e ancor più dalla coscienza – ai salotti, con un preoccupante ritorno a certi stili ottocenteschi in cui la politica erano i «notabili» e la società era da essi tranquillamente manovrata. Oggi sono cambiati i «manovratori», ma le differenze sono ormai minime, nonostante che nel frattempo sia stato introdotto il suffragio universale. Occorre che i cittadini si riapproprino della politica, perché solo a questa condizione potrà affacciarsi una nuova stagione della vita civile, e anche la comunità cristiana deve fare la propria parte in questa riappropriazione. Anche a giudizio di chi serve, non per diventare essa stessa «soggetto» della politica ma facendosi essa stessa centro propulsore di una passione civile che nasce dal Vangelo e dalle sue istanze di giustizia e, attraverso il magistero sociale della Chiesa, identifica e approfondisce le ragioni di un servizio all’uomo per la difficile ma necessaria via della politica. «Lo sviluppo» (ma si potrebbe tranquillamente interpretare «la buona politica») «ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nella preghiera», ci ha recentemente ricordato Benedetto XVI (Caritas in veritate, n. 79); ma queste braccia devono poi sapersi volgere ai bisogni degli uomini e farsi strumento di pace e di giustizia. La preghiera si fa politica, le «braccia alzate» diventano mani operose a servizio della buona politica.
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