Cambiare l'errore. Cambiare passo
venerdì 7 dicembre 2018

Il Gioco dell’Oca della Manovra finanziaria per il 2019 riparte dalla casella del "Via", ovvero dalla barriera del deficit massimo del 1,9%. Ma a differenza di quanto accade in un gioco che tante volte abbiamo fatto da bambini si torna al "Via" senza ritirare nessun premio, pagando anzi il prezzo di una conflittualità sterile con l’Europa che ci è costata centinaia di punti di spread e una spesa per interessi sul debito pubblico più elevata sui titoli emessi nelle ultime aste. Miliardi in fumo.

In questo si realizza in sostanza quanto abbiamo sottolineato più volte sulle colonne di questo giornale (e che il ministro dell’Economia Tria, inascoltato, aveva previsto): proporre un deficit maggiore avrebbe generato dei costi (reali) che si sarebbero rimangiati i benefici (teorici) dell’operazione. Confermata anche la critica rivolta da molti di noi economisti alla previsione avventata di una crescita del Pil dell’1,5% nel 2019 (previsione "strumentale", confezionata per non far sembrare agli occhi della Commissione troppo temeraria la Manovra del "Governo del cambiamento" italiano).

Mentre torniamo alla casella del Via infatti la situazione economica è peggiorata. Se il riaffacciarsi di un trimestre di crescita negativa non può essere interamente imputato al nuovo Governo (sta peggiorando, infatti, anche il clima internazionale per le guerre commerciali), senz'altro possiamo attribuire allo stesso il peggioramento dello spread e il peggioramento dell’indice di aspettative degli imprenditori che non vedono più roseo il loro futuro. Va perciò salutato con favore, e come un elemento di maturità, la decisione di evitare infine lo scontro frontale tra l’Italia e l’Unione Europea (la Commissione di Bruxelles tanto quanto gli altri Stati membri) come primo passo per eliminare questi effetti negativi. Per proseguire in questa direzione sarebbe, però, il momento di prendere alcune piccole (o forse grandi) decisioni di buon senso.

Con un altro atto d’umiltà bisognerebbe evitare di rinnegare a prescindere quanto fatto dai Governi passati. In particolare andrebbe riconosciuto come gli incentivi per Industria 4.0 siano stati fondamentali per far ripartire gli investimenti nel Paese, promuovendo innovazione e adeguamento alle nuove tecnologie. Secondo, come viene sottolineato da più parti con un coro unanime, e come ha fatto recentemente l’Alleanza contro la Povertà che ha contribuito a costruire la misura, ha veramente poco senso ed è una gran perdita di tempo e denaro smantellare il Reddito d’inclusione (Rei) per sostituirlo con il Reddito di cittadinanza. Il governo potrebbe ugualmente onorare promesse elettorali (del M5s) e impegni programmatici (di M5s e Lega) aumentando significativamente lo stanziamento (come, del resto, ha intenzione di fare) su questo capitolo di spesa e cercando per quanto possibile di integrare il percorso già avviato con i servizi sociali comunali e con le associazioni del territorio impegnate nell'accompagnamentodei destinatari del Rei con quello che si vuole realizzare anche estendendo la misura a platee più ampie di beneficiari. Pur riconoscendo la buona volontà dei promotori del Reddito di cittadinanza, l’errore qui sta a monte.

Il problema dell’inserimento nel lavoro ha molte facce: ridurre la distanza tra domanda e offerta con il coordinamento tra scuola e mondo del lavoro, sviluppare competenze trasversali e soft skills (le abilità relazionali e comunicative) sempre più importanti nel mondo del lavoro di oggi, creare reti tra gli attori del territorio con una vera e propria alleanza per il lavoro, favorire il discernimento dei giovani nel percorso scolastico, reinserire gli esclusi e gli scartati. Pensare che tutto questo possa essere risolto da un unico dominante deus ex machina pubblico da ristrutturare in parte o in toto come i Centri dell’impiego e non, in ottica di economia civile, con una sinergia tra pubblico, privato sociale e for profit vuol dire autolimitare la capacità di un sistema ricco e articolato come il nostro di risolvere il problema.

Bisogna inoltre sempre ricordare che una parte essenziale del ritardo strutturale di crescita tra Italia e resto dell’Ue per il quale finiamo per essere sempre fanalino di coda dipende dai ritardi e dalle inefficienze del sistema Paese (burocrazia, tempi della giustizia civile, accesso delle piccole imprese alle fonti di finanziamento esterno, scarsa qualità ed efficienza della pubblica amministrazione che ci impedisce di realizzare investimenti per i quali abbiamo già avuto fondi europei). E che la cura di questi elementi (le famose riforme) è priorità assoluta che non richiede maggiore deficit e neppure porta a uno scontro con le istituzioni europee. Con un po’ più di umiltà e di realismo si scopre forse che una parte importante del progresso che cerchiamo in termini di crescita sostenibile e di creazione di lavoro non ha bisogno di bracci di ferro con i Paesi 'fratelli' e che il centro della battaglia non sta nei decimali del deficit.

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