venerdì 11 settembre 2015
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Torniamo sulla cameraman ungherese che sgambetta il profugo mentre scappa dalla polizia, perché è una scena che ci rivela tante cose. È bene cavarle fuori e ricordarsele. Per capire la rapidità e la furia con cui l’Ungheria costruisce il muro che sbarrerà la strada ai migranti, ma anche per capire come chi ci dà le notizie e c’informa, ha passioni politiche e umane che possono trascinarlo. Questa giornalista sgambetta un profugo che corre, e poco dopo tira un calcio a una bambina che scappa. Fa tutto questo con una gamba, esattamente la sinistra. È mancina. Ma chi mi dice che non faccia lo stesso lavoro, tirar calci ai migranti e sgambettarli, anche con la cinepresa? Quando filma e fa la regista? Quando commenta e fa la speaker? Lei non fotografa la realtà, per spiegarci com’è. Lei interviene sulla realtà, per cambiarla, per peggiorarla. Guardiamo le tre scene. Le possiamo vedere grazie a un cameraman tedesco che filma a tutto campo, quindi riprende anche i colleghi che a loro volta filmano. La massa di migranti corre in maniera disordinata, da sinistra verso destra, fanno un rumore di tonfi caotico, come bisonti. Non vogliono essere raggiunti dalla polizia. Uno di questi fuggiaschi, tarchiato e basso, passa con una corsa più goffa degli altri, perché ha un fagotto in braccio, un bambino, lo tiene di traverso, testa a destra e gambe a sinistra, sta bene attento ad evitare i pericoli, passa davanti alla giornalista, una donna giovane sui trent’anni, bionda, con jeans e un giubbetto, e cinepresa in spalla. La donna lo guarda con occhio neutrale. Ma quando il fuggiasco le è davanti, lei allunga un piede, il sinistro, a forma di uncino, lo aggancia sulla gamba sinistra, il fuggiasco barcolla e subito dopo cade bocconi. Il figlio finisce sotto il padre, che gli grava addosso col proprio peso. In un altro filmato il padre si rialza a fatica, sbraita contro la donna, poi riprende a correre. Il figlio strilla a bocca spalancata. La giornalista fa finta di niente. Poco dopo, in una terza sequenza, si vedono i profughi correre da destra a sinistra, passano accanto alla giornalista, che li guarda con lo stesso occhio indifferente di prima, ma quando una bambina le càpita davanti, la cameraman le rifila un calcione, sempre col piede sinistro, e la colpisce al ginocchio. La bambina spalanca gli occhi, non capisce chi la scalcia e perché (cioè: chi la odia), ma non c’è tempo per capire, bisogna correre, e corre. 'Chi scalcia e perché' è un immenso problema psicologico. Non lo spiega la politica, non l’economia, non la guerra, non il razzismo… I reduci dai Lager lo raccontano spesso: se uno cadeva per terra, l’istinto del vicino non era tirarlo su, ma spingerlo via urtandolo con un piede, e questo urto poteva anche essere un calcio. Era un istinto di difesa: la tua morte resti tua e non diventi mia. Un riflesso che discendeva dalle epoche primitive, quando gli uomini erano nemici uno dell’altro, e se uno cadeva era interesse dell’altro finirlo. L’uomo caduto, l’uomo in fuga, l’uomo inseguito scatenava in chi lo vedeva l’istinto di abbatterlo, braccarlo, prenderlo. Questo ricordo arcaico scatta anche nel cervello delle vittime: il prigioniero che riceve un calcio o un pugno, poi può essere liberato e tornare a casa, ma se gli resta un pezzo di vita da vivere, ogni mattina ripenserà a quel calcio, a quel pugno. È un trauma indelebile. Un balzo indietro di migliaia d’anni, dal pieno Cristianesimo all’età delle orde. Il trauma è un coltello, e nel cervello dei bambini incide più a fondo. Il bambino in braccio al padre, che quando il padre cade lui finisce schiacciato sotto, riemerge urlando: è lo spavento di chi balza dalla vita tra gli umani alla vita tra animali feroci, che ti si buttano addosso: adesso abbattono tuo padre, poi toccherà a te.
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