Nel momento in cui lascia la presidenza degli Stati Uniti, pare difficile che George W. Bush possa essere rimpianto. Da almeno due anni la sua presidenza è sopravvissuta in mezzo a livelli record di impopolarità, che hanno contribuito non poco – specie nel contesto della crisi economica – all’elezione di Barack Obama, verso il quale continuano a circolare aspettative paramessianiche. Eppure l’uscita del secondo Bush dalla Casa Bianca suggerisce un bilancio a tinte più sfumate, meno manicheo di quello oggi prevalente. È bene cominciare dai passivi della presidenza Bush, il principale dei quali ci pare di tipo metodologico: l’unilateralismo con il quale ha affrontato il cambiamento climatico e alcuni nodi essenziali di politica estera. Fratture profonde si sono così generate sia con alcuni alleati (vari governi europei, in diverse fasi, giungendo al culmine con la guerra in Iraq), sia con le principali potenze mondiali: Russia, Cina, Brasile e altri Paesi sudamericani. Naturalmente si è trattato di un unilateralismo parziale, come stanno a dimostrare i buoni accordi sul nucleare e la capillare rete di alleanze minori di cui la stessa guerra in Iraq ha potuto godere. Per non parlare dell’appoggio convinto che alcuni governi (dalla Spagna di Aznar all’Australia di Howard, dal Regno Unito di Blair all’Italia di Berlusconi) hanno offerto, specie in passato, alla presidenza Bush. Tale unilateralismo si è armato di una ideologia – legata al nome dei cosiddetti 'neocon' – che ha unito elementi tradizionalmente democratici (si pensi all’internazionalismo di W. Wilson) con il conservatorismo dei repubblicani. Anche a chi non crede che questa cultura politica debba essere demonizzata, la presidenza Bush ha dimostrato proprio la debolezza dell’America quando opera come superpotenza unica e solitaria. Una debolezza fattuale (che si è vista nella lenta evoluzione del conflitto iracheno) cui si è sovrapposto un ruolo di 'capro espiatorio' che Bush ha finito per assumere agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, specie di sinistra ma non solo. Questa constatazione di fondo rimane vera anche se al declinare della sua presidenza l’unilateralismo di Bush si è attenuato, e alcuni errori sono stati corretti, mentre altri sono stati ridimensionati. Una correzione si è vista in Medio Oriente, con il cambio di strategia in Iraq (il 'Surge' voluta dal generale Petraeus, che ha posto le basi per una relativa normalizzazione del Paese) e con l’alt alla proposta israeliana di un bombardamento delle installazioni nucleari iraniane. E un ridimensionamento è venuto sul terreno più difficile per la presidenza Bush: il cambiamento climatico. La tesi secondo cui il cambiamento avrebbe avuto proporzioni meno drammatiche di quelle denunciate dai movimenti ecologisti – e sarebbe stato causato solo in parte dall’uomo – appare oggi meno fantasiosa di alcuni anni fa. Gli altri capitoli negativi dell’eredità Bush sono l’economia, la repressione del terrorismo e l’impreparazione dell’apparato statale interno a fronte di grandi emergenze, come l’uragano Katrina. Pure in questi casi il bilancio rimane negativo, anche se forse qualche 'se' e qualche 'ma' vanno aggiunti. Il dogmatismo iperliberista dei repubblicani richiede un rigoroso riesame, ma è forse eccessivo addebitargli integralmente la crisi attuale, che ha fra le sue cause aspetti dell’American Way of Life che la presidenza Bush non ha creato e che le sopravviveranno, così come varie politiche in materia di mercati azionari. La lotta al terrorismo internazionale condotta da Bush si è guadagnata un marchio di infamia legato al carcere di Guantanamo e alla sottrazione dei soggetti ivi detenuti alle più elementari regole dello stato di diritto. Tuttavia su questo punto si dimenticano troppo presto due cose: l’efficacia dell’azione dell’amministrazione Bush (gli attentati dell’11 settembre, verificatisi subito dopo la fine della presidenza Clinton, non si sono ripetuti in terra americana) e la scelta di non inquinare con norme eccezionali il sistema della giustizia ordinaria degli Stati Uniti. Quanto infine al fallimento dei soccorsi su Katrina, che pure si spiega abbastanza bene con la natura federale dell’ordinamento americano, l’amministrazione ha imparato la lezione, facendo approvare dal Congresso la costituzione di una struttura federale competente per i disastri naturali, che ben ha operato negli uragani del 2008. I versanti più positivi di Bush sono forse in politica interna: i programmi scolastici no child left behind (nessun bimbo lasciato indietro), le scelte sulle grandi questioni etiche (la sua opposizione al finanziamento della ricerca sulle cellule staminali embrionali, al matrimonio gay, all’eutanasia all’aborto), le ottime nomine alla Corte suprema e alla guida della Fed. Rimane dunque la valutazione iniziale: sarà difficile rimpiangere Bush. Ma i problemi e le scelte che hanno fatto di lui il presidente più impopolare dell’ultimo mezzo secolo non scompariranno con l’arrivo alla Casa Bianca di un leader molto più colto, brillante e telegenico (e amato dai media). Il 20 gennaio non inizia un mondo nuovo.