Dice Google che da Yalta a Kazan ci sono 2.257,6 chilometri, mentre dalla fine della Conferenza dei vincitori della Seconda guerra mondiale al vertice prossimo dei Brics (Brasile, Russia, India Cina e Sudafrica) di ottobre, in Russia, saranno passati 29.108 giorni. Che se sono di certo bastati a cambiare le sorti del mondo, non sono stati invece sufficienti – a maggior ragione oggi – per definire le regole che lo governano.
Nel club di chi conta si entra sempre per cooptazione. Non semplicemente bussando alla porta, come sta ora facendo il più grande artefice della politica mondiale dei “mille piedi in altrettante scarpe”, il presidente turco Erdogan, il quale preme per entrarci, nel club, con in dote una tessera di Paese Nato e da eterno candidato all’ingresso nella Ue. Sì, perché dal 22 al 24 ottobre a Kazan i veri padroni del raggruppamento Brics – Paesi che nel 2009 venivano definiti anche con una certa sufficienza come «le economie emergenti» – e cioè Cina e Russia mostreranno le carte. Dimostreranno che non è un “bluff” il peso forma raggiunto da un gruppo che ormai rappresenta il contropotere o, meglio, il nuovo potere con dietro quasi la metà della popolazione mondiale e un quarto abbondante del Pil.
Alternativo e non succedaneo all’ormai limitato G7, superiore se non soverchiante l’altrettanto stanca Organizzazione delle Nazioni Unite, il raggruppamento dei Brics ha eroso dalle fondamenta l’Onu: in Consiglio di sicurezza Mosca e Pechino rappresentano un’alleanza di blocco che protegge gli amici di oggi o quelli che ambiscono a esserlo: la cronaca di questi giorni aggiunge alla lista il Venezuela di Maduro o il Nicaragua dell’altro dittatore Ortega. Russia, Cina (e Iran) sono i Paesi protagonisti delle due più grandi crisi geopolitiche aperte, la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente. È sotto gli occhi di tutti, con le forniture di armi e di protezioni che periodicamente vengono alla luce.
Ma c’è una seconda linea di azione, nell’ombra, dei Paesi guida del raggruppamento Brics, che forse all’inizio si muovevano in maniera involontaria, poi sempre più intenzionale: l’Africa e l’Asia sono i due terreni di conquista, senza risparmiare qualche affondo in quel “cortile di casa” di rooseveltiana memoria rappresentato dall’America Latina. In Africa i russi sono penetrati nella fascia saheliana, scalzando i primigeni colonizzatori francesi. Controllano uranio e altre risorse cruciali e soprattutto sanno fare - per la verità un po’ goffamente, mostrandosi in piena luce - quello in cui gli americani erano maestri: controllare e comandare attraverso i Paesi cosiddetti “proxy”, un tempo attori della politica dei blocchi. La Cina non utilizza certo le baionette, come fanno i militari del Gruppo Wagner riconvertiti sotto la bandiera dell’evocativa e spettrale Afrika Korps, ma il denaro speso e l’effetto finale è lo stesso: controllo degli accessi al mare nella rotta verso Suez, risorse minerali e di terre rare ingenti e grandi affari con i governi compiacenti africani per le infrastrutture in cambio di “pagherò” esigibili per sempre in termini politici di penetrazione nelle strutture statali.
In Asia, invece, Xi Jinping tiene saldamente sotto controllo il leader nordcoreano Kim Jong-un mentre muove fregate e caccia intorno a Taiwan, ultima “portaerei americana” ormeggiata davanti alle coste del millenario impero. Quanto all’Iran, è ormai più una potenza mediorientale che può colpire Israele in qualsiasi momento. Dall’altra parte dello scacchiere ci sono gli Stati Uniti, gli altri “Grandi” senza Mosca e Pechino, l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Nazioni e istituzioni di certo legate dal filo rosso della riconfigurazione geopolitica in corso, ma che faticano a ridefinire un assetto in grado di affrontare la nuova sfida. E il vertice di Kazan, non a caso, è stato programmato a una decina di giorni dal voto per la Casa Bianca.