Le vittime nell’offensiva israeliana a Gaza, seguita al pogrom di Hamas del 7 ottobre, hanno superato le 14mila, secondo quanto dichiarato dalle autorità locali (una cifra ritenuta del tutto realistica anche da osservatori indipendenti, benché i palestinesi manipolino l’informazione come tutte le parti coinvolte nei combattimenti). I bambini uccisi sono più di 5mila, tremila e cinquecento le donne. Si tratta dello 0,6% della popolazione della Striscia, stimata in 2,3 milioni. Parametrato sulla popolazione residente oggi in Italia - 59 milioni - equivale a 355mila persone morte nel nostro Paese. I caduti civili italiani nell’intera Seconda guerra mondiale furono circa 153mila, lo 0,35% della popolazione del tempo. Numeri che non possono non impressionare, al di là del diritto di Israele di rispondere all’aggressione terroristica su ragazzi e famiglie inermi e al continuo lancio di razzi verso il proprio territorio - che continua fino a oggi e avrebbe fatto molti più danni se Tel Aviv non avesse uno scudo antimissile ad alta tecnologia. Di fronte a questi nudi dati, che non hanno la forza raggelante dei racconti dei parenti dei rapiti ebrei e dei familiari dei palestinesi bombardati - dopo i quali anche il Papa è stato sopraffatto dalla commozione - è difficile sopravvalutare l’importanza della tregua pronta a entrare in vigore, pur con ritardi e comprensibili difficoltà, accompagnata da uno scambio di prigionieri. Quattro giorni senza raid aerei e scontri sul campo permetteranno un afflusso maggiore di aiuti umanitari e di ripristinare parzialmente l’agibilità di alcune strutture sanitarie, indispensabili nella situazione emergenziale cui è ridotta la parte nord di Gaza.
L’accordo è stato possibile grazie alla mediazione del Qatar che ospita leader di Hamas e ha finanziato il movimento integralista sotto l’occhio compiacente di Israele. Netanyahu è stato costretto ad accettare l’intesa per riportare a casa almeno 50 connazionali. Hanno pesato le pressioni dell’America di Biden, consapevole di quanto l’operazione delle Forze armate di Tel Aviv rischi di infiammare la regione e il mondo musulmano, ma si tratta sostanzialmente dell’ammissione che il pugno di ferro non è servito per liberare gli oltre duecento cittadini catturati durante l’attacco terroristico. Basterà questo spiraglio per consentire alla diplomazia di muovere qualche altro passo nella direzione della fine di questa guerra asimmetrica? Stando alle dichiarazioni dello stesso premier, il conflitto riprenderà verso il suo obiettivo finale di eliminare la struttura militare di Hamas. L’impresa sembra raggiungibile solo parzialmente e a un prezzo troppo alto. Non solo per la popolazione di Gaza. Opzioni per compiere un tentativo di fare tacere le armi non mancano. Facile pensare a una coalizione araba che si candidi a riportare l’ordine nella Striscia e a garantire (nei limiti del possibile - nemmeno l’occupazione israeliana eviterebbe singoli attentati) la sicurezza del vicino Stato ebraico. Oppure a un’iniziativa dell’Onu per una forza internazionale che sancisca una tregua tra le parti. C’è da chiedersi però se esiste vera volontà di pace in chi può decidere. Capi di Hamas hanno più volte dichiarato di mirare a un alto tributo di sangue della propria gente per alimentare l’odio verso Israele. Netanyahu può sperare di ribaltare il crollo di popolarità dovuto al fallimento dell’intelligence solo proseguendo la guerra e ottenendo una capitolazione del nemico costi quel che costi, anche se non esiste un piano per il futuro della convivenza con i palestinesi. I Paesi arabi devono rallentare il percorso di normalizzazione verso Israele per la pressione delle loro opinioni pubbliche. Tuttavia, non paiono disposti a impegnarsi in uno sforzo militare o economico per i loro “fratelli” sotto assedio e restano alla finestra, forse tentati anche dalle sirene di Russia e Cina, capifila di quel Sud del mondo che un po’ cinicamente scommette sul caos a danno dell’Occidente.
Con le divisioni e la scarsa influenza che l’Europa riesce a giocare sullo scacchiere mediorientale, restano gli Stati Uniti, dove la lunga vigilia elettorale vincola il presidente in carica a bilanciare l’uso della sua influenza fra la tradizionale vicinanza a Israele e la pressione della base democratica a favore dei palestinesi. Nella morsa intanto restano i civili. Essi sono bersagli diretti da una parte e obiettivi “collaterali” dall’altra (va comunque ricordato) dell’orrore cominciato quasi due mesi fa, con un atto criminale che non si può ridimensionare alla luce degli eventi successivi, perché segnala il mai abbandonato progetto di impedire l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Sarebbe invece tempo che al posto di uno Stato sotto continua minaccia, due Stati potessero stare fianco a fianco in un processo di progressiva pacificazione. Dopo 75 anni di complesse e dolorose vicende, è il traguardo cui la speranza tenta di aggrapparsi. Per ora, realisticamente, potremo solo tirare un breve sospiro di sollievo per la fragile tregua che dovrebbe avviarsi nelle prossime ore.