Le città del vastissimo nord della Nigeria stanno cadendo una a una, come castelli di carte, nelle mani dei jihadisti di Boko Haram. Venerdì è toccato anche a Chibok, luogo simbolo dell’orrore dei fondamentalisti islamici, per il tributo di sangue pagato e per le oltre duecento liceali rapite il 14 aprile e ancora in mano ai qaedisti. Ma non basta. Il movimento estremista ha già proclamato un suo Califfato a Gwoza e controlla una fascia di territorio sempre più ampia che sconfina anche nel vicino Camerun. Un’avanzata che, giorno dopo giorno, sta evidenziando la fragilità di un esercito infiltrato per altro da elementi che forniscono un flusso continuo di informazioni ai capi militari del gruppo terroristico. E che alimenta una triste contabilità di morte. Fatta di villaggi dati alle fiamme o conquistati, di azioni kamikaze contro le scuole considerate «occidentali» o contro le sempre più ridotte comunità cristiane che resistono nella fascia settentrionale della federazione nigeriana, ormai totalmente islamizzata.
La risposta internazionale, nei gesti e nelle parole, era stata forte nel momento di massima esposizione mediatica della vicenda delle studentesse rapite. Campagne sul Web, la più nota è
#bringbackourgirls, avevano visto testimonial d’eccezione, a partire da Michelle Obama. Lo stesso presidente Usa aveva offerto uomini e intelligence, disponibilità analoghe erano venute dalla Gran Bretagna, dalla Cina e persino da Israele. Una sorta di task-force che, nonostante liti e gelosie al proprio interno, poteva fornire un aiuto tecnologico e di esperienza alla sicurezza nigeriana. Da mesi queste forze sembrano però inattive, paralizzate dai continui blocchi che subiscono dalle autorità politiche nigeriane e dai vertici dell’esercito di Abuja che sono già stati riformati almeno due volte in meno di tre mesi. Interventi esterni non sembrano, insomma, alle viste. Bloccati dallo stesso presidente Goodluck Jonathan che non intende presentarsi al voto presidenziale di febbraio per la riconferma con truppe straniere sia pure sotto bandiera Onu sul territorio nazionale.
Nello stesso tempo Boko Haram, che ha dimostrato grandi capacità logistiche, di formazione e di recupero di armamenti attraverso l’importazione dall’estero, sembra adottare una strategia precisa. Non punta, come invece ha più volte proclamato senza mai dar seguito concreto alla minaccia, al cuore del Paese: il petrolio. Una mossa speculare e opposta a quella dello Stato islamico che tra i primi obiettivi strategici in Siria aveva posto proprio l’occupazione dei siti petroliferi, avviando un remunerativo contrabbando. E questo nonostante che l’azione del “califfo” al-Baghdadi affascini enormemente il leader dei qaedisti nigeriani Abubakar Shekau.
Un motivo di tanta “circospezione” qualcuno lo intravede. Toccare il petrolio – i giacimenti principali sono nella zona meridionale del Delta che con qualche difficoltà potrebbe però essere raggiunta da reparti avanzati di Boko Haram anche solo per operazioni di sabotaggio – significherebbe “scatenare” non solo la reazione interna ma anche quella dei Paesi stranieri che ne hanno il controllo indiretto o ne traggono i benefici. Significherebbe “esportare” un pericolo e un problema che oggi (verrebbe da dire, purtroppo) alla fin fine restano “soltanto” nigeriani. A quel punto, sicuramente con meno complicazioni rispetto alla vicenda iracheno-siriana che è densa di mille variabili geopolitiche, le riserve contro un’azione “esterna” contro Boko Haram sarebbero molto basse per moltissimi Paesi. I jihadisti nigeriani preferiscono consolidarsi su un territorio fatto proprio, accontentandosi di violenze e pulizie etnico-religiose ai danni dei cristiani che il mondo, nonostante qualche soprassalto, preferisce fingere di non vedere.