Non possiedo dati o strumenti che mi consentano di contestare i risultati dello studio in questione, che del resto era animato non certo da intenti xenofobi, ma dall’obiettivo di fare chiarezza su una questione che sarebbe sbagliato liquidare all’insegna del politicamente corretto. Devo dire, però, che da insegnante ho sempre considerato la presenza in classe degli studenti stranieri più una ricchezza che un problema. E ciò che ogni anno è accaduto alla fine ha sempre confermato questa convinzione. Certo, la questione può essere sensibilmente diversa a seconda che si parli di scuola primaria o di scuola secondaria.
Alle elementari i problemi derivanti dalla presenza di bambini non italofoni sono forse maggiori che alle medie e alle superiori, dove si presume che il processo di alfabetizzazione (linguistica e matematica) sia in gran parte avvenuto. Eppure quella ricchezza di cui parlavo credo sia reale in ogni ordine di scuola.
Ricordo l’anno in cui in classe (una prima liceo scientifico) avevo Junior e Wen. Il primo, brasiliano, portava quella spontaneità e quell’allegria contagiosa che contribuiva a rendere piacevoli le mattinate, per i suoi compagni come per noi insegnanti; il secondo, cinese, portava un senso della disciplina e del dovere a cui spesso i nostri ragazzi sono troppo poco avvezzi. Raccontava che in Cina, dove aveva frequentato la scuola elementare, il maestro aveva una canna di bambù lunga quanto l’aula, pronta a calare sulla testa di chiunque tra gli alunni osasse distrarsi. Non ho mai saputo se quel metodo educativo poco auspicabile fosse reale o si trattasse di una innocente invenzione di Wen. Fatto sta che la sua resistenza alla fatica scolastica era invidiabile. Una volta a settimana mi fermavo due ore di pomeriggio a fargli lezioni supplementari di grammatica: tra la prima e la seconda ora, io stesso mi stancavo di quei noiosissimi esercizi. E allora gli chiedevo se volesse fare cinque minuti di pausa. «No, professore, andiamo pure avanti», era la sua risposta abituale.
L’anno in cui (in seconda liceo) ho avuto in classe Moad, marocchino, è stato lui il primo dell’intero istituto: in pagella aveva nove in tutte le materie (a parte quelle in cui aveva dieci). Spesso le famiglie di immigrati sostengono la scuola e gli insegnanti perché intravedono nell’istruzione una via di miglioramento sociale per i propri figli. Cosa che invece non accade con i genitori italiani, che anzi molte volte incolpano l’istituzione scolastica di tutti i problemi dei loro ragazzi. Questo intendevo quando parlavo di ricchezza. Vuoi mettere, poi, fare una lezione di geografia sull’Asia con uno studente indiano o sull’America latina con un peruviano? A quel punto i professori diventano loro.
Ma c’è un’altra ragione, ancora più decisiva, per cui i ragazzi di origine straniera fanno bene alla scuola: perché contribuiscono a creare i presupposti – dei presupposti non astratti né teorici, bensì concreti, reali, tangibili – per fare della scuola, come dovrebbe essere, il luogo dell’inclusione, della conoscenza e dell’apprezzamento delle differenze. Perché se la società va in una direzione ben precisa (sempre più multietnica e interculturale) non possiamo pensare di isolare i nostri ragazzi in una campana di vetro, cioè in una scuola che non presenti lo stesso variegato panorama che c’è fuori. Per la stessa ragione per la quale è assurdo – come purtroppo è capitato di recente in un istituto del Napoletano – che i genitori vogliano cambiare scuola ai loro figli nel momento in cui apprendono che in classe c’è un ragazzo autistico. Quale luogo migliore della scuola per abbattere i pregiudizi e favorire l’integrazione delle diversità?