È sempre violento, il nostro nemico, quando si presenta alla porta. Però certe volte l’abbatte così di schianto, e brutalmente, che per un attimo interminabile tutto ci crolla addosso e intorno: anche quello che è rimasto in piedi. Enigma indecifrabile dell’essere 'presi'. Eppure sappiamo di essere mortali. Enigma dell’essere 'lasciati' in vita: eppure sappiamo di rimanere comunque mortali. Ricordate il turbamento dei 'sopravvissuti' ai campi di sterminio? Molti non vi hanno retto, persino tragicamente. L’esperienza di un’umanità comune e condivisa, il nostro bene assoluto, brutalmente tagliata in due dalla morte di alcuni e dalla sopravvivenza di altri – entrambe inspiegabili – diventò insopportabile. L’indelebile sigillo di quella terribile esperienza – il male assoluto, che si riforma sempre – era proprio questo. La morte che ci strappa agli affetti è sempre insopportabile. Ma è anche vero che noi lo agevoliamo in mille modi, il lavoro sporco della morte. Quello che non si limita a spegnerti il corpo. Quello che ti soffoca anche l’ultima scintilla dell’anima. Quello che ti vuole convincere dell’inutilità delle migliori passioni della vita. Nella storia dell’uomo, in mille modi facciamo calcolo sulla morte: in pensieri, parole, opere e omissioni. In mille modi le vendiamo l’anima. Lo facciamo al prezzo della vita altrui, nell’illusione – patetica e un po’ vile – di sopravvivere meglio. Lo facciamo svuotando la mente delle generazioni che vengono, catturando i loro occhi perché non si guardino dentro l’anima, infilando mille congegni nelle loro orecchie, perché rimangano sconnessi. Paolo di Tarso, quello che ha detto «se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana», la chiama «l’ultimo nemico», la morte. Certo, bisogna aver molto amato la vita di qualcun altro, per patire fino in fondo l’ostilità – «l’inimicizia» – della morte. Questo patimento non va avvilito, confondendolo con il timore biologico della propria estinzione. Non accettiamo denari, in cambio di questa 'fede'. Un essere umano con la schiena dritta non cede su questa passione dell’amore che dà la vita: costi quel che costi. E spera, contro ogni speranza, per tutti. La cristianità ripete oggi, per tutti, il racconto della enorme pietra che fu spazzata via dal sepolcro di Cristo. L’ultima maceria, fra noi e la speranza. Narra delle bende sciolte e ricomposte, perché non più necessarie. Porta fino a noi, senza cambiarne una virgola, l’emozione del giorno in cui si impiantò nella storia la certezza della sconfitta totale dell’ultimo nemico. All’ultimo, infatti, neppure il corpo si potrà tenere, la morte. Non pensavamo che Dio avrebbe amato così tanto anche quello. Pensavamo che Dio, al più, si prende le anime: i corpi, e il mondo, li lascia al loro destino di inevitabile sgretolamento. Eppure, un voce indecifrabile, proprio nell’intimo del nostro abbandono, ci lanciava un segnale. Come accettare di spalmare semplicemente una mano di nero sugli incanti e sui sogni che la nascita di un essere umano forma e riforma incessantemente, soltanto perché il suo corpo è fragile, vulnerabile, mortale? Contro ogni apparenza, la nostra anima aveva più ragioni di quelle che sono scritte nei libri dei filosofi e nei racconti della morte. Non possiamo sottrarci al doloroso passaggio in cui la felicità dell’affezione tra i mortali, che genera umanità condivisa, è messa alla prova della sua pura differenza dal godimento. Per non agevolare il lavoro sporco della morte, che ci fa dubitare dell’amore, però, possiamo molto. Moltissimo. E lasciatemi aggiungere questo. È l’intera società occidentale, che oggi viene sfidata dall’annuncio evangelico della risurrezione. Perché la prova della nostra fede in quella differenza, in questa precisa fase della nostra storia, è un fatto sociale totale. La forma collettiva della convivenza occidentale, è ispirata dal racconto di Narciso. Battiamoci per i legami dell’umano, non difendiamo gli adoratori della propria immagine.