Il suggerimento più semplice l’aveva sussurrato lo scorso giugno il presidente Joe Biden agli industriali americani che lamentavano la difficoltà a trovare lavoratori: «Pay them more», pagateli di più! Lo si potrebbe ripetere anche ai nostri imprenditori, per dare risposta all’emergenza dei lavoratori poveri: ben il 24% degli occupati e il 12% delle famiglie in Italia, secondo una stima del 'Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa', istituito dal ministro Andrea Orlando. Si tratta di una fetta significativa di popolazione che, pur occupata, guadagna meno del 60% del reddito mediano e perciò fatica ad arrivare a fine mese.
Una situazione di forte difficoltà per cui il team di esperti – guidato dall’economista dell’Ocse, Andrea Garnero – ha evidenziato 5 possibili interventi a partire dal salario minimo per legge, sperimentale e limitato ad alcuni settori, il rafforzamento dei controlli, una revisione dell’indicatore Ue di povertà lavorativa, incentivi alle imprese per il rispetto delle norme e un «in-work benefit», un sussidio mirato per i lavoratori regolari in povertà. Proposte che si spera non restino del tutto inascoltate come è stato per quelle di vero miglioramento del Reddito di cittadinanza.
Sul basso livello dei salari influiscono certamente fattori economici come la produttività stagnante e il cuneo fiscale particolarmente alto nel nostro Paese. Ma la questione investe anche temi come la presenza massiccia di lavoro 'nero' e 'grigio', la precarietà di alcune tipologie contrattuali, il part-time involontario e, non ultima, la titolarità della contrattazione e la sua regolazione. Chiamando necessariamente in causa le parti sociali assai prima di qualsiasi ipotetico intervento dello Stato. In un mercato 'ideale', infatti, una volta fissate dal legislatore le norme universali di tutela delle persone, i rapporti di lavoro dovrebbero essere regolati solo dalla contrattazione tra datori e sindacati dei lavoratori. Tra soggetti collettivi organizzati democraticamente, la cui rappresentatività è misurabile e certificata, che negoziano sulla base di un mandato e i cui accordi stretti a maggioranza hanno valore erga omnes per categorie e aziende. Oggi, invece, l’incerta definizione di «sindacati maggiormente rappresentativi» ha permesso che su 854 contratti nazionali di lavoro censiti dal Cnel, per ben 403 all’Inps non risultino versamenti codificati dei contributi. Contratti cosiddetti 'pirata', sottoscritti da aziende e sindacati poco rappresentativi, quando non direttamente 'padronali', che evidentemente non tutelano i lavoratori e rappresentano la 'foglia di fico' dietro cui si nascondono rapporti in 'grigio' e salari assai più bassi dei minimi di categoria. A queste situazioni si aggiungono poi quelle di altre nicchie del mercato, dalle false cooperative ai nuovi segmenti del lavoro attraverso piattaforme digitali, che sono prive di qualsiasi riferimento contrattuale. Per un totale di lavoratori 'scoperti' stimato nel 10-15% degli occupati. Appunto coloro per i quali si progetta di introdurre – almeno in via sperimentale – un salario minimo per legge.
La responsabilità di queste lacune nella tutela dei lavoratori ricade in parte sulle stesse Confederazioni sindacali e imprenditoriali, che hanno finora opposto una fiera resistenza sia (comprensibilmente) all’introduzione del salario minimo per legge, sia (colpevolmente) alla misurazione della loro rappresentatività. Tutto per poter avere mani libere e firmare accordi sulla base solo di un reciproco riconoscimento. Un modello probabilmente funzionale nel Novecento, ma che negli anni Duemila andava subito sostituito con un diverso paradigma. E invece, nonostante sia stato realizzato negli anni scorsi per il settore pubblico e sia pure previsto in due accordi interconfederali, la misura della rappresentatività nel settore privato è rimasta inattuata. Ora per sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro suona l’ultima campanella per cambiare strategia e recuperare un ruolo autenticamente sussidiario e non subalterno rispetto alla politica. Essere soggetti 'certificati' che hanno legittimazione a firmare contratti con forza di legge per tutti, limitando l’intervento del salario minimo ai soli settori che non hanno ancora un contratto di riferimento e prepararsi a costruirlo. La tutela dei lavoratori poveri passa anzitutto da qui: da un ritrovato protagonismo del sindacato, non solo quando si tratta di dare battaglia per abbassare l’età pensionabile. E da un’assunzione di responsabilità della classe imprenditoriale, perché più i salari sono bassi e più alto è il rischio: per tutta la società.