Meno privacy, più sicurezza. È un baratto che in molti, negli anni passati, hanno faticato ad accettare. Dall’11 settembre 2001 in poi, tanto per identificare un termine abbastanza attendibile, varchi elettronici e perquisizione sono diventati un’abitudine e non c’è più obiettivo pubblico (od "obiettivo sensibile", come si usa dire con una parafrasi non troppo rassicurante) che non abbia eretto intorno a sé una qualche forma di difesa. Apra la borsa, per cortesia. Metta il cellulare nella vaschetta. Alzi le braccia, solo per un momento.Qualcuno, almeno all’inizio, ha provato a eccepire, ma alla fine la logica del
do ut des ha prevalso: qualcosa in cambio di qualcos’altro,
quid pro quo come ripeteva il "cannibale" Hannibal Lecter dalla sua gabbia nel
Silenzio degli innocenti. Criminale pericolosissimo, tenuto sotto massima sorveglianza. Per lui evadere era impossibile. Peccato che, a metà film, l’evasione riuscisse alla perfezione.Che cosa c’entra il cinema, si dirà. Quello che è successo ieri al Tribunale di Milano è cronaca, e della cronaca ha la durezza, l’irrevocabile drammaticità. Gli spari, le vittime, la fuga attraverso la città impaurita. Tutto vero, senza ombra di finzione. Come vera, purtroppo, è l’incuria che ha permesso all’assassino, l’imprenditore in bancarotta Claudio Giardiello, di introdurre a Palazzo di Giustizia la Beretta 7.65 e i due caricatori di cui si è servito per la strage. Un finto tesserino gli ha consentito di passare da un ingresso riservato, evitando così il controllo dei metal detector. Trucchetto banale, sul quale verrebbe quasi da ironizzare. Se fosse solo un film, appunto. Se non ci fossero i morti: l’avvocato Lorenzo Alberto Claris, il coimputato Giorgio Erba, il giudice Fernando Ciampi.Succede a Milano, a meno di un mese dall’inaugurazione di Expo 2015. E succede a Palazzo di Giustizia, quello stesso Palazzo di Giustizia che è tornato di recente a riappropriarsi del carattere simbolico che gli era stato assegnato oltre vent’anni fa, ai tempi dell’inchiesta Mani Pulite. C’è di mezzo una fiction televisiva, anche questa volta, quasi a confermare che i fili del nostro presente sono sempre più ingarbugliati. Siamo la nostra quotidianità, la nostra cronaca. Ma siamo anche, sempre di più, il modo in cui scegliamo di raccontare questi giorni, e i fatti che giorno per giorno succedono.Quella della sicurezza è stata una delle grandi narrazioni del nostro passato recente, come hanno dimostrato sociologi quali Zygmunt Bauman e, in Italia, Mauro Magatti. Abbiamo ceduto molto in cambio di quello che ci veniva promesso. Ora siamo al punto che la promessa non può essere tradita. Di sicuro non in questo modo, non con la complicità di un documento malamente contraffatto. Non con la prospettiva di un uomo che entra armato e armato esce dal Tribunale di una metropoli dal prestigio internazionale.
Quid pro quo: il
quid lo conosciamo, è una particella piccola, a volte addirittura minima, del nostro tempo e della nostra riservatezza. Una cessione che abbiamo accettato anche perché tutto, intorno a noi, ci ripeteva che così era giusto fare. Provate a rileggerli in questa prospettiva, certi racconti popolari degli anni Zero, e vedrete che la morale della favola è sempre la stessa. I controlli non sono mai abbastanza, i sacrifici in nome della sicurezza non sono mai sufficienti.Tutto giusto, tutto condivisibile, non fosse che in vista di questo vantaggio le nostre società si sono ritrovate a essere più diffidenti e, in alcuni casi, meno accoglienti di prima. Ne valeva la pena?, ci si potrebbe domandare ripensando alla folle mattinata milanese di ieri. Il rispetto dovuto alla vittime obbliga a rispondere che sì, ne valeva la pena, a dispetto di errori che, di ora in ora, appaiono sempre più incomprensibili nella loro grossolanità. Ma questo non basta ancora a vincere il senso di sconforto. C’è una ferita più profonda, un’incrinatura nella nostra umanità che riesce a ingannare qualsiasi dispositivo di controllo. Ne abbiamo avuto conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno. Ed è su questa materia oscura e violenta che, oggi più che mai, ciascuno di noi è chiamato a vigilare.