L'elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica è una pagina preziosa per il nostro Paese, che induce a riflettere, rivalutandole, sulle radici della nostra cultura civile. Il profilo politico cristiano e democratico del nuovo capo dello Stato fa emergere valori e visioni di riferimento che sono oggi fondamentali per coltivare anticorpi utili per resistere ai vari "pensieri unici" che rischiano di minare i fondamenti della convivenza. È una garanzia per tutti, credenti e non credenti. E, su un altro e più specifico piano, è un impulso a tornare sulla pagina ambigua e pericolosa scritta con il recente decreto legge n. 3 del 24 gennaio 2015 sulle Banche popolari. Un provvedimento sbagliato, e che viene spiegato a partire da un’affermazione apodittica e lunare: «La dottrina italiana in materia di diritto bancario ha segnalato da tempo che le Banche popolari hanno solo la forma cooperativa e non la sostanza della mutualità». Quale dottrina? Quella economica no di certo. Quali banche? Certo non tutte: evitiamo le citazioni, ma abbiamo in mente molti casi italiani e internazionali in cui questo non è affatto vero. Ma andiamo per ordine. La versione ufficiale di quanto accaduto è che sono stati i "regolatori" europei a inserire tra i «compiti a casa» dell’Italia un progetto di abolizione del voto capitario e di radicale stravolgimento della governance per Banche di credito cooperativo e popolari che, a quanto è poco a poco emerso, sarebbe stato limitato dal Governo alle sole Banche popolari sopra gli 8 miliardi di attivo. Un primo risultato, importante ma non sufficiente. Il nostro Governo, che ha dimostrato una certa attitudine a non accettare acriticamente diktat dall’Europa (che poi saremmo noi, l’insieme dei Paesi membri), ha il dovere di andare oltre, secondo una linea di resistenza attiva. Il primo passo, a nostro parere, è nella formulazione di una domanda a bruciapelo ai "regolatori": perché questo compito a casa lo dobbiamo fare solo noi e non anche Germania, Austria, Olanda, Finlandia, Francia (tutti Paesi dove esistono grandi banche cooperative e popolari con voto capitario)? Perché non iniziare dalle Raffeisen e Volksbanken austriache o tedesche? Il secondo passo potrà poi essere in un dialogo coi "regolatori" europei che metta in luce i gravi errori di sostanza che si nascondono dietro questo diktat. Un provvedimento pericoloso, perché distrugge quella biodiversità che è fondamentale anche per la resilienza dei sistemi finanziari. Un atto illiberale, perché non si cancella per editto una forma societaria che sta dando mediamente buoni risultati in termini di capitalizzazione, accesso al credito, servizio ai territori per trasformarla in un’altra (la grande banca spa) che ha dato ultimamente preoccupanti segnali di debolezza con alcune crisi acute che hanno distrutto la ricchezza dei territori (il caso Siena docet). Quattro partiti hanno presentato eccezioni sulla costituzionalità della decretazione d’urgenza ( e "con l’accetta") in una materia delicata come questa. Il consolidamento bancario non è affatto una virtù. La scala ottimale per una banca non supera i 20 miliardi (si legga e si rilegga il Rapporto Liikanen della Ue) e le banche cooperative e popolari si caratterizzano per una maggiore intensità di credito e una maggiore capacità di farlo nei periodi di crisi. Il mito della maggiore contendibilità come virtù per le banche spa è un mito sbagliato e pericoloso. Si tratta di una contendibilità che è stata spesso giocata a scapito dei territori e dei piccoli azionisti e che ha promosso l’autoreferenzialità di manager e grandi azionisti in operazioni che hanno arricchito loro e distrutto le società attraverso operazioni con parti correlate e acquisizioni finanziate caricando di debiti la società (il cosiddetto leverage buyout). Molte grandi imprese italiane sono state distrutte da queste operazioni. Il Governo stesso pare consapevole del problema, se ha posto limiti alla contendibilità "a tutti i costi", aperta alle scorribande di capitale impaziente, proponendo nelle spa il cosiddetto «voto maggiorato», ovvero un potere di voto doppio ai soci stabili che detengono azioni per più di 24 mesi. Resta però il fatto che riforme di questo tipo debbono essere vagliate e approvate dalle assemblee parlamentari e non imposta a priori dall’alto... Non c’è più dubbio che nella Ue si pone ormai una questione che dovrebbe inquietare seriamente i nostri rappresentanti e governanti: esistono Paesi membri di "serie A" e di "serie B". Gli Stati di "serie A" sono esenti da alcuni "compiti a casa" (come questo, appunto) e vengono giustificati sulla base di dogmi infondati e controproducenti. I Paesi di serie B sono, invece, chiamati a fare tutti questi "compiti", anche a costo di rendere paradossalmente ancora più difficile la loro ripresa. Che passa, in un sistema troppo bancocentrico come quello europeo, proprio attraverso la volontà delle banche di trasformare in credito la liquidità immessa dalla Bce sui mercati con l’imponente acquisto di titoli di Stato (il Quantitative easing). I complottismi non ci appassionano ma certo, a fronte di queste evidenze, è lecito sospettare che l’obiettività dei "regolatori" europei sia stata turbata, anche da pressioni di gruppi che hanno messo gli occhi e verrebbero mettere le mani su una parte importante e ancora "speciale" del nostro sistema bancario. Ci chiediamo come può un Paese democratico e popolare accettare tutto questo. Serve uno scatto di orgoglio per presentare la verità dei fatti ai "regolatori" europei e denunciare l’evidente asimmetria di imposti doveri, chiarendo a tutti che l’Italia non può essere trattata come una repubblica delle banane. Ci permettiamo di suggerire che i 18 mesi oggi previsti dal decreto per la trasformazione obbligata di tutte le Banche popolari con almeno 8 miliardi di attivo in spa vengano trasformati in un tempo nel quale l’intero sistema cooperativo-popolare vari progetti di autoriforma già nel cassetto per rinforzare accesso al mercato di capitali e garanzie di rete incrociate. Una riforma all’insegna del rispetto della storia, della realtà e della libertà. Anche la libertà di cambiare forma societaria, meglio con la garanzia offerta dallo strumento del «voto maggiorato», per le banche e le comunità di azionisti che vogliono farlo. Ma – insistiamo – per libertà, non per diktat.