martedì 25 agosto 2009
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Un coro di voci in lontananza. Quasi un mormorìo. La strada ha il selciato, ma anche la larghezza, del vicolo. I balconi si guardano da vicino, uno di fronte all’altro. È da lì, al primo piano di un palazzo che espone con cadente fierezza i suoi anni – mura scrostate ma ringhiere con ricami in ferro battuto  da sembrare merletti – che vengono le voci. Il silenzio della controra d’estate – una quiete che si spande su tutto – le amplifica. Più da vicino quel suono indistinto prende forma ma anche ritmo.  È difficile sbagliare: si recita il rosario. Lo sguardo in alto potrebbe apparire indelicato, ma quando, finita la prima strofa dell’Ave Maria, la seconda è intonata a più voci dai dirimpettai di almeno tre balconi, allora la riserva vien messa da parte. I vicoli, in ogni paese del Sud, più che tratti di strada, sono i corridoi condominiali dei caseggiati che vi stanno intorno. Si fa vita comune e proprio i balconi sono gli occhi tenuti aperti non solo sulla strada, ma – per i più anziani – spesso sulla vita. Non si può dire che queste forme di preghiera all’aria aperta siano inusuali. La tradizione di raccogliersi nei cortili è lunga e finanche negli androni dei palazzi non è raro vedere gruppi riuniti davanti a qualche immagine sacra. Ma alzare lo sguardo su quei balconi affacciati sul vicolo è stato, a un tratto, come alzare lo sguardo su un mondo nuovo: i volti erano quelli dei nostri anziani, ma non solo. Come tradiva l’accento di ogni parola, sui balconi alloggiava una piccola rappresentanza di Stati. Badanti, sì; le donne – ma anche gli uomini – messe a custodia dei nostri anziani. Nei vicoli, patria dei dialetti, dove l’unica lingua straniera è stata finora l’italiano, vederle e sentirle pregare è stato come un improvviso cambio di scena. Nelle chiese sono ormai una presenza abituale, con o anche senza il datore di lavoro. Ma la corona del rosario non è un utensile come un altro per il quale c’è bisogno di aiuto; e neppure, quella forma di preghiera all’aria aperta poteva far pensare a un supplemento di volontariato, una specie di extra da mettere nel conto dei servizi ordinari. Insieme su quei pulpiti all’aperto del nostro Salernitano, affacciate sul vicolo svuotato dalla calura dell’estate, il piccolo gruppo di badanti ha rimandato, come un lampo, l’immagine di un’integrazione al massimo dei livelli possibili. L’italiano, forse, continuerà, in quei vicoli, a rimanere una lingua estranea; ma i suoni delle parole – quasi tutte sconosciute – e gli accenti, tutti un po’ strani quando si storpia un vocabolo familiare, davano vita non solo a una lingua, ma a un modo di comunicare tutto nuovo: una composizione non solo di parole, ma di stili di vita, di cultura. E, alla fine, di sentimenti, poiché viene anche il momento che non basta – nel senso che diventa troppo poco – il semplice rapporto di lavoro. Chi, spesso da un’altra parte del mondo, entra nella tua casa così a fondo, finisce poi per entrare nella tua vita. E niente più di quelle badanti al balcone di un vicolo riuscivano a trasmettere il senso non di un servizio, ma di una condivisione. E aggiungevano, al tutto, un tocco di colore da non trascurare: anche il vicolo, l’intramontabile monumento all’architettura del vicinato, cambia i suoi suoni e, in parte, il suo volto. A suo modo accoglie, come può, pur cercando di restare se stesso, quel tanto di globalizzazione al quale non è possibile rinunciare. Neppure oggi stare nel vicolo – dove, in passato, si cercava rifugio dagli assalti del nemico – è come rimanere tra le quinte del mondo. Ma può anche accadere che il mondo continui a cercarvi quel tanto di umanità al quale non è possibile rinunciare.
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