sabato 3 settembre 2011
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Non capita spesso che Israele riceva soddisfazione dall’Onu. Per la prima volta un rapporto delle Nazioni Unite ha riconosciuto la legalità del blocco navale di Gaza, ma il governo Netanyahu non ha avuto il tempo di gioire della buona notizia, trasformatasi immediatamente in un boomerang. Il rapporto della commissione Onu sul raid del 31 maggio 2010, quando le forze speciali israeliane assaltarono la nave ammiraglia della Flotilla diretta a Gaza uccidendo nove pacifisti turchi, ha suscitato la durissima reazione del governo di Ankara, giunto a un passo dalla rottura totale dei rapporti con lo Stato ebraico. La guerra fredda tra i due ex alleati, iniziata nel gennaio 2009 in concomitanza con la guerra calda d’Israele sul fronte di Gaza, aveva raggiunto il punto di non ritorno dopo il sanguinoso blitz navale. E oggi lo scontro ha toccato il culmine con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano da Ankara e con la sospensione di tutti gli accordi militari.Il governo turco, che ha sempre considerato illegale il blocco navale di Gaza, giudica «inaccettabili» le conclusioni del rapporto Onu dove si punta il dito contro l’atteggiamento violento dei pacifisti internazionali, ma non si risparmiano critiche all’uso eccessivo della forza da parte d’Israele, invitato a risarcire le vittime e a formulare «un’appropriata dichiarazione di rammarico». Troppo poco per Erdogan che esige delle scuse formali, sempre negate da Netanyahu. Il braccio di ferro va avanti da quindici mesi, nonostante i numerosi tentativi patrocinati dagli Stati Uniti per giungere a una riconciliazione tra il Paese della mezzaluna e quello della stella di David. Anche per questo il rapporto Palmer, già pronto all’inizio dell’anno, veniva tenuto nel cassetto. E vi sarebbe rimasto ancora a lungo se il New York Times non avesse deciso di pubblicarlo due giorni fa. Nell’infuocato Medio Oriente scoppia un altro incendio, non meno pericoloso di quel che divampa in Siria e dei focolai che covano nelle "primavere arabe".A rischiare di più, paradossalmente, è lo Stato d’Israele che si trova ad essere completamente isolato. In Egitto la caduta di Mubarak lo ha privato del partner più forte e autorevole di tutta l’area medio-orientale e ora deve vedersela con gli ambigui militari che comandano al Cairo, mentre nel Sinai si è aperta una falla minacciosa per la sicurezza dei suoi confini. Ed è finito il tradizionale gioco di squadra con la Turchia, un tempo alleato prezioso e oggi spregiudicato rivale con ambizioni egemoniche sullo scacchiere medio-orientale. Senza contare la protesta sociale che dilaga all’interno del Paese, con migliaia di "indignados" che scendono in piazza a Tel Aviv e in tante altre città.Ma per Israele le brutte notizie non finiscono qui. La bufera più grande scoppierà tra pochi giorni, il 20 settembre, quando Abu Mazen chiederà ufficialmente all’assemblea delle Nazioni Unite il riconoscimento dello Stato palestinese. L’Europa è divisa, gli Stati Uniti sono contrari, ma oltre i due terzi dei 192 Paesi rappresentati al Palazzo di vetro di New York sono pronti a votare a favore. Una mossa disperata quella di Abu Mazen, giustificata però dall’intransigente rifiuto di Netanyahu di riaprire il negoziato di pace. A proposito: esattamente un anno fa il presidente americano Obama annunciava la ripresa delle trattative con l’obiettivo di definire lo status finale tra Israele e Palestina entro settembre 2011. Non è successo nulla. O per meglio dire: è successo di tutto quest’anno, ma tra Israele e palestinesi non è cambiato niente. Un grande vuoto che qualcuno, a modo suo, ha deciso di riempire.
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