La fede non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di una umanità autentica di cui i missionari martiri sono testimoni. Ed è proprio a loro che va il nostro ricordo, nella preghiera e nel digiuno, ogni anno, il 24 marzo, giorno in cui ricorre il martirio di monsignor Oscar Romero. Un pastore salvadoregno, dunque latinoamericano come papa Francesco, che seppe rendere intelligibile il mistero cristiano, in un contesto di aperta persecuzione. Tale iniziativa, promossa da
Missio, organismo pastorale della Cei, che quest’anno cade felicemente nella Domenica delle Palme, è incentrata sul tema: "Martirio: un fatto di fede". Ma i volti di questi testimoni del nostro tempo, di cui facciamo memoria, esprimono sempre e comunque una fragilità e una serenità disarmante, senza però lasciar trasparire i segni della fatica, bensì della volontà di governarla, come accade a un atleta cui vengono meno le forze, ma non al punto di costringerlo a desistere. Emblematico è l’esempio dell’apostolo dei Gentili, Paolo di Tarso, quando sentì approssimarsi il declino del suo vigore: «
Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi» (ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho conservato la fede). Ecco perché la loro esperienza, quella dei tanti apostoli del Vangelo, disseminati nei cinque continenti, all’insegna della gratuità e della radicalità, diventa, per ogni credente, motivo d’ispirazione. Non foss’altro perché nella corsa della vita, il fardello che tutti gli uomini portano sulle loro spalle è quello della sofferenza. Nella felicità si è tutti diversi per condizione di razza, di lingua o di censo, e solo il dolore, alla prova dei fatti, ci rende davvero eguali. Un tema dunque aspro e pungente, quello del martirio se disgiunto dall’atto di fede. E se la domanda fondamentale, che interpella ognuno di noi, specchio com’è di un’inquietudine mai risolta, è sempre la stessa, i missionari ci aiutano a cogliere un mistero che ci sovrasta: quello del trionfo della vita sulla morte e su ogni oscuro presagio. Perché se è vero che la Storia è scandita da molteplici patimenti, per chi crede e non crede; dall’altra, nella fede, essa porta il segno della redenzione. Questo è il valore aggiunto di una missionarietà senza confini che afferma la gioia del dono. D’altronde, essere credenti, significa, innanzitutto, cogliere la certezza di una Presenza, quella di Cristo, vivendo coerentemente e dignitosamente secondo il Vangelo. Solo riacquistando credibilità, allora, saremo in grado di corrispondere al
Mandatum Novum di Nostro Signore, quel precetto dell’Amore di cui i nostri missionari sono paladini, in giro per il mondo. E guardando a papa Francesco e a tutti loro, siamo convinti che abbiamo ancora molto da imparare. Si tratta soprattutto di prendere coscienza delle proprie responsabilità battesimali, assumendo atteggiamenti protesi all’ascolto, al dialogo e al servizio. Non dunque un cristianesimo algido e ingessato, arroccato solo e unicamente su posizioni dottrinali, ma inclusivo, capace di trasformare il mondo con la forza della testimonianza. Si tratta di rendere intelligibile il Dio crocefisso e risorto che appare, a molti dei nostri contemporanei, più eloquente che l’Altissimo onnipotente, apparentemente lontano dal dolore umano. Il martirio dei nostri missionari, possa allora costituire l’occasione di riconoscere il volto del Dio Vivente nei tanti "abbandonati" della Storia: dalle vittime delle guerre mondiali e dell’Olocausto a quelle della miseria e dei genocidi che continuano a perpetrarsi, fino ai nostri giorni. Il grido di questi reietti – che non conta affatto per i distratti – provoca un bisogno di trascendenza, di uscita da sé verso gli altri, verso l’Altro. Quello che, per noi, è Pasqua di Risurrezione.