Ci vorrà tempo per capire e metabolizzare il voto del 4 marzo. Ma che vi sia una rivoluzione in corso, come è già stato scritto anche su queste colonne, non è in dubbio. Prima che nel Parlamento, da insediare il 23 marzo, domenica, per la prima volta nella storia della Repubblica, si è concretizzata nelle urne una potenziale ampia maggioranza cosiddetta sovranista o euroscettica. M5S, Lega e Fratelli d’Italia, pur con le differenze che si vedranno, hanno totalizzato il 55,4% dei voti espressi per la Camera dei deputati. Con ogni probabilità, non saranno insieme in un governo, ma tutti esprimono programmi e un orientamento specifico sicuramente critici verso il progredire del cammino comunitario.
Che l’Europa sia l’orizzonte entro il quale muoversi è però chiaro a tutti. E ormai non potrebbe essere altrimenti. Non si tratta infatti di puntare a un’impensabile Italexit sul modello britannico, piuttosto c’è l’obiettivo, più o meno velleitario, di rimodellare gli obblighi e il contributo dell’Italia all’entità Ue. Un risultato che tuttavia equivarrebbe a un brusco stop, foriero di contraccolpi su due versanti, sia quello interno italiano sia quello europeo. L’Europa, intesa come istituzione, è stata spesso sfruttata come facile bersaglio, sponda cui attribuire i vincoli e le debolezze interne quando non si voleva assumersene le responsabilità. La campagna elettorale della Lega ha molto giocato su questo tasto: siamo vittime di Bruxelles, ma con noi ci sarà finalmente la svolta. Se non fuori dall’euro (che pure tanto ci ha protetto, in particolare negli ultimi anni con le politiche monetarie della Banca centrale guidata da Mario Draghi), almeno con un non meglio precisato allentamento di legami ritenuti soffocanti.
Matteo Salvini, peraltro, da europarlamentare uscente, conosce bene i meccanismi continentali e sa quanto è propaganda e quanto potrebbe davvero fare da premier. La sua alleata Giorgia Meloni ha scelto di compiere un viaggio lampo a Budapest proprio alla vigilia del voto, quasi a ricevere un viatico da quell’Orban, capo del governo ungherese, che incarna da una parte l’euroscettismo populista e per alcuni aspetti illiberale e, dall’altra, contrasta apertamente gli interessi del nostro Paese con il gruppo di Visegrad, fieramente ostile alla equa redistribuzione dei migranti all’interno della Ue. Di diverso tenore il sovranismo a Cinque Stelle, che è oscillato tra il rifiuto della moneta unica (presto rientrato) e la volontà di sforare il tetto del deficit per avviare misure economiche espansive a debito. Da entrambe le parti si contestano alcuni Trattati economici e aspetti della libera circolazione dei servizi, con un sottofondo comune: l’idea di potere 'fare da soli', l’illusione che sia possibile, in uno scenario irrevocabilmente interconnesso, riconquistare appunto 'sovranità' e non subirne contraccolpi.
Le preoccupazioni della Commissione e del suo presidente Juncker sono legate a uno scenario inedito per uno dei Paesi fondatori e tra i principali attori dell’Unione, scenario di cui peraltro non si intravedono ancora i contorni precisi. Sul finire della legislatura, con il governo Gentiloni l’Italia aveva avviato un percorso finalizzato al progetto di una cooperazione privilegiata con la Francia (il Patto del Quirinale proposto dal presidente francese Macron) che poteva anche costituire uno degli strumenti per quell’Europa «a due velocità» da alcuni evocata. Uno strumento per quei Paesi – certamente la Germania e qualche altra nazione del Nord – che vorrebbero accelerare il processo di integrazione, tenendo però impregiudicati gli accordi precedenti con tutti gli altri Stati membri. Difficile immaginare che oggi si possa proseguire su un percorso di quel genere, mentre lo stesso Macron ha riconosciuto che il tema immigrazione ha pesato sul voto italiano, con la Ue colpevolmente inerte di fronte alle difficoltà di Roma, lasciata senza sostegno ad affrontare gli sbarchi e l’accoglienza. È certo questa l’Europa che tutti vorrebbero veder cambiare, così come si vorrebbe alle spalle l’Europa del pregiudizio verso i Paesi del Sud e dell’austerità sorda a ogni motivata eccezione e destinata a suscitare reazioni peggiori dei conti in disordine. Resta il fatto che la Ue, con un’Italia che tirasse in direzione contraria, subirebbe un duro colpo, oggi forse tale da invertire la tendenza che con gli ultimi risultati elettorali in Olanda, Francia e Germania sembrava essere stabilizzata. Così come strappi a Bruxelles da parte di un nuovo esecutivo finirebbero per ritorcersi contro di noi, innanzitutto in termini economici.
Quello che forse non si farebbe per sincero europeismo, si potrà tuttavia fare per sano pragmatismo. Sapendo, chiunque prenda la guida del Paese, che il voto di domenica chiede serietà e soluzioni, non avventurismi. E che il sentimento e l’eredità europeista dell’Italia non andrebbero svenduti per cercare un consenso che si rivela, comunque, sempre più effimero.