Non è stato un errore. Non è stato un incidente né una fatalità. L’attacco attuato da Israele alle postazioni della missione Unifil, la forza di peacekeeping svolta sotto mandato Onu e che vede protagoniste Italia e Francia, è stato un atto voluto e deliberato, che ha provocato il ferimento di due soldati indonesiani.
Un’aggressione che avrebbe potuto portare a conseguenze molto gravi anche per i nostri soldati, i quali dal 2006 garantiscono che Israele e Hezbollah non vengano nuovamente a contatto, dopo la tragica guerra dei trentatré giorni di quell’anno. Un’azione che sarebbe ingannevole limitarsi a catalogarla come una “follia” delle forze armate israeliane. È molto di più: attaccare una missione internazionale Onu è un crimine di guerra.
E purtroppo, è doloroso doverlo ammettere, non sembra essere neppure il primo commesso da Israele in questo anno di vendetta dopo l’orribile strage del 7 ottobre. Sembra quasi che – sull’onda dei successi militari – il governo e i vertici militari dello Stato ebraico abbiano perso ogni freno inibitore, travolti da una volontà di continuare il conflitto e di allargarlo alla regione: ieri la distruzione di Gaza e gli assassinii mirati all’estero, poi i bombardamenti indiscriminati in Libano e le sfide continue alla Repubblica islamica, quasi ad invitarla a reagire – come ha in effetti fatto –, ora l’entrata con le truppe di terra nel fragile “paese dei cedri” e infine l’attacco a Unifil.
In molti pensano che si sia trattato di una sorta di avvertimento, che a noi italiani suona molto in “stile mafioso”, per far sloggiare dalla frontiera le nostre truppe e avere mano libera nell’invasione del Libano del Sud. Una richiesta fatta già da qualche giorno in modo rude – “spostatevi più a nord” – e alla quale il comando Unifil ha risposto negativamente. Del resto, il contingente Onu non prende ordini da un governo che è parte in causa nel conflitto, anche se si tratta di un Paese amico come Israele.
Ma quale che fosse l’intento di questo attacco, è chiaro che Netanyahu ha superato ogni limite. Ora basta: non vi sono alternative a fermare subito le armi. E non vi devono essere ambiguità e discorsi levantini anche fra i nostri alleati in Occidente: è tempo di massimizzare la pressione su Tel Aviv per forzarli a fermare questo conflitto sanguinosissimo.
Washington ha gli strumenti, se solo li volesse usare, per fermare la deriva bellicista di Israele: ossia bloccare – come già richiesto dal presidente francese Macron – l’invio di armi al Paese. Non si tratta di togliere sostegno o di “abbandonare” lo Stato ebraico; piuttosto, è il tentativo estremo di evitare una spirale insensata di morti e violenze, per riprendere i negoziati per una tregua. Che finora Netanyahu ha sempre boicottato, anche a costo di lasciare gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas al loro terribile destino.
Cosa faranno l’Italia e le altre nazioni impegnate in Unifil è difficile da prevedere. Per ora si resta, ha detto il governo italiano, anche perché smobilitare una missione ventennale nel mezzo di un conflitto è tutto tranne che semplice o privo di pericoli.
Ma restare significa anche dare un segnale che l’Onu, per quanto indebolito, non cede alla protervia che sembra aver intossicato il governo israeliano. E difendere il ruolo delle Nazioni Unite è fondamentale, soprattutto ora che il suo Segretario generale, António Guterres, viene considerata persona non grata e che Israele minaccia di mettere al bando l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Una minaccia insensata, dato che su di essa si basa la distribuzione degli aiuti – quei pochi che si riesce a far arrivare – alla stremata popolazione civile di Gaza.
È tempo di pace in Terra Santa. È tempo di riporre le armi e siglare una tregua che possa portare a uno stop definitivo del conflitto. Ma è anche tempo di assumersi le responsabilità a Washington e in Europa, per parlare a Israele come solo gli amici possono fare. Per dire che tutti i limiti sono stati infranti e che è ora di fermarsi. Subito.