«Ai piedi della croce, nessuno di noi può dire quale sia stata la passione più crudele: se quella di un uomo innocente che muore sul patibolo, o l’agonia di una madre che accompagna gli ultimi istanti di vita di suo figlio». Papa Francesco nell’Udienza generale di mercoledì scorso ha parlato di tutte le notti attraversate da Maria. Quasi un canto alla Madonna, nella imminenza del viaggio a Fatima. La notte più atroce è quella del Golgota. Chi soffrì di più, il Figlio o la Madre, nel vedere il suo ragazzo martoriato, massacrato, dileggiato dalla folla, il bel volto che reclinava fino a emettere, con un alto grido, l’ultimo respiro? La domanda del Papa testimonia di una potente immedesimazione nel dolore della madre, nella passione di Maria. Vengono in mente i versi di Jacopone da Todi nello Stabat Mater: «Vidit suum dulcem natum / morientem desolatum...». L’indicibile strazio di una donna che vede agonizzare lentamente sul patibolo il figlio amatissimo.
Di lei, i Vangeli dicono semplicemente che «stava» ai piedi della Croce. Nel buio più fitto, aggiunge il Papa, lei «stava». Ma come resse quelle ore Maria, a quale forza attingeva? La catechesi del Papa può servire a noi, donne e uomini di oggi, perché indica il metodo della forza silenziosa della madre di Cristo.
Maria, dice Francesco, non era una donna che protestava, che inveiva contro il destino. A volte, aggiunge, non comprendeva ciò che le accadeva attorno – nel grande mistero che avvolge Cristo fin dal suo concepimento.
Ma Maria, ci dicono i Vangeli, medita ogni parola e avvenimento nel suo cuore. «È una donna che ascolta, e non dimenticatevi che c’è sempre un grande rapporto fra speranza e ascolto», dice il Papa. C’è un rapporto fra la speranza e l’ascolto. Sembra una traccia su cui anche noi possiamo lavorare. Ascoltare, cioè liberarsi dal rumore delle cose da nulla, e accogliere l’altro, ciò che dice e ciò che gli si legge negli occhi; esporsi come inermi agli eventi, alle storie altrui, e alla nostra stessa, e elaborarle lentamente, ospitarle nel proprio cuore. È il silenzio fecondo di Maria quello che il Papa indica, sono i lunghi mesi che seguirono al « fiat », in cui quella giovane donna che non comprendeva, però ascoltava e riascoltava in sé le parole dell’ angelo. È il silenzio alla tavola delle nozze di Cana, dopo che l’acqua si è fatta vino, a un solo cenno della mano del figlio. Quanto silenzio, quanto ascolto nella vita di quella madre. E l’ascolto, dice il Papa, ha un rapporto con la speranza.
Come può essere? Forse perché nell’ascolto della realtà, nello «stare» umile davanti agli eventi, è più facile rintracciare i fili sottili del disegno che governa le nostre vite. E, vedendo quei fili, quel progetto, quello sguardo buono su di noi, allora è si impara a fidarsi di Dio, e dunque avere speranza. Ascolto, speranza. Forse le ore sotto la Croce non annichilirono quella madre, per questo: perché nel profondo di lei viveva la memoria dell’angelo che annunziava, e della visita a Elisabetta, e delle nozze di Cana – quando il vino buono e copioso era sgorgato dalle anfore riempite d’acqua. L’ascolto di Maria si apriva alla speranza, dentro all’insondabile mistero di quel Figlio; e perfino il martirio, perfino gli insulti potevano, nel suo cuore, rientrare dunque in un insondabile, misericordioso piano. Per questo, insegna il Papa, Maria è lì, «fedelmente presente, ogni volta che c’è da tenere una candela accesa in un luogo di foschia e di nebbie».
Alla vigilia del viaggio a Fatima, pellegrino nel nome di Dio e ai piedi della Madre alla quale ha consacrato il suo pontificato, Francesco ci ripete che non siamo orfani, che abbiamo una madre: anche quando tutto appare privo di senso, «lei sempre fiduciosa nel mistero di Dio, anche quando Lui sembra eclissarsi, per colpa del male del mondo».