In seguito al conflitto in corso tra Russia e Ucraina, l’amministrazione Obama ha annunciato l’imposizione di sanzioni nei confronti del regime di Putin. In particolare, gli Stati Uniti hanno introdotto restrizioni alle esportazioni di beni ad alta tecnologia con potenziali applicazioni militari e hanno annunciato il congelamento di beni e capitali all’estero di quarantotto fedelissimi del capo del Cremlino. Canada e Unione Europea hanno cominciato a seguire la linea tracciata dalla Casa Bianca confermando queste misure. Tali restrizioni costituiscono un esempio di sanzioni mirate, in linea con un’evoluzione recente degli strumenti economici utilizzati per punire un Paese rivale o nemico senza dover ricorrere a un attacco militare.
L’esperienza non soddisfacente di sanzioni generalizzate come nei casi di Cuba, Corea del Nord, Iraq, Iran e Libia ha fatto sovente dubitare della opportunità di imporre misure che poi risultano inefficaci, se non addirittura controproducenti, favorendo il rafforzamento dei regimi che si intendevano combattere. I motivi di tale inefficacia sono stati studiati in maniera approfondita. In primo luogo, si verifica un fenomeno di aggiramento, vale a dire uno o più Paesi si sostituiscono nei rapporti commerciali con la nazione sanzionata. Se in passato i fenomeni di aggiramento erano prevedibili ma di difficile attuazione, negli ultimi anni grazie all’evoluzione in senso globale dei mercati internazionali e degli avanzamenti tecnologici e produttivi, l’eventualità che un singolo Stato possa danneggiare seriamente la vita economica di un altro è divenuta decisamente remota. Un’interruzione degli scambi generalizzata a molti beni rischia, pertanto, di penalizzare eccessivamente i produttori di chi impone le sanzioni. Nel contempo, embarghi applicati su molti beni potrebbero rafforzare il regime al potere poiché solitamente le popolazioni che subiscono le conseguenti privazioni economiche si stringono intorno alla bandiera – "rally-around-the-flag". Nei fatti, in molti casi dittatori incuranti del benessere della popolazione si astengono anche dall’assumere misure di politica economica che potrebbero alleviare i danni sulla popolazione al fine di sfruttare tale sentimento contro i rivali stranieri. È chiaro quindi che in un’economia globalizzata è da condividere la scelta di sanzioni mirate più utili per colpire l’oligarchia al potere senza gravare eccessivamente sulla popolazione. Nel caso in questione, per altro, le misure adottate non dovrebbero penalizzare eccessivamente le imprese occidentali sia clienti sia fornitori di imprese russe. Del resto, è stato da molti sottolineato che le relazioni economiche tra diversi Paesi dell’Unione Europea costituirebbero in ogni caso un freno a una più decisa applicazione delle sanzioni nei confronti del regime di Putin.
Il settore maggiormente sotto i riflettori è senza alcun dubbio quello delle risorse energetiche. L’americana Exxon Mobil è il principale investitore straniero presente in Russia, vincolata per un 6% della propria produzione ad impianti localizzati nell’isola di Sachalin. Ma le preoccupazioni più significative emergono in Europa. Da un lato, i membri Ue sono dipendenti dalla forniture di greggio e gas naturale e, dall’altro, molte compagnie europee sono legate a società russe per incroci proprietari o accordi sul lato della produzione. Il caso più eclatante è adesso quello dell’inglese BP, che detiene una partecipazione del 19,75% nella Rosfnet, il cui amministratore delegato Igor Sechin è stato inserito nella lista dei fedelissimi di Putin sottoposti alle restrizioni. Il settore dell’energia non è comunque l’unico da tenere in considerazione. In Europa, gli interessi in gioco sono diversi. Nel settore bancario, ad esempio, sono principalmente gli istituti francesi a essere particolarmente esposti nei confronti dei partner russi. Anche nell’ambito della difesa gli americani non guardano di buon occhio i rapporti tra Parigi e Mosca, in particolare per la futura consegna di due navi da guerra, di cui una – la «Sebastopoli» – destinata a stazionare proprio nel Mar di Crimea. Discorso analogo potrebbe presentarsi per Israele, fornitore di droni, e per l’Italia, fornitrice dei blindati leggeri Lince prodotti dall’Iveco. Anche i grandi produttori automobilistici – Ford, General Motors, Hyundai-Kia e Renault Nissan – hanno stabilimenti la cui produzione è principalmente destinata al mercato interno russo e che quindi potrebbero ritrovarsi in difficoltà non solo per le sanzioni in sé ma anche per un auspicabile (da parte dei governi occidentali) indebolimento generale dell’economia in seguito al conflitto.
Dal punto di vista economico, infatti, gli effetti più evidenti e profondi delle sanzioni dovrebbero essere di natura indiretta. Esistono conseguenze che non dipendono direttamente dalla loro applicazione, quanto dal clima di aspettative negative che esse generano. Per mezzo degli embarghi, la comunità internazionale "segnala" agli imprenditori, internazionali ma anche interni, che le relazioni con la Russia non godono più di favore. Di conseguenza, la perdita di fiducia nei confronti del regime di Putin dovrebbe indurre una contrazione delle relazioni economiche con Mosca in maniera spontanea e non esclusivamente in virtù di specifiche misure restrittive. Non a caso, in pochi mesi, la fuga di capitali dalla Russia è stata significativa. Nel contempo, il rublo si è svalutato e il tasso di interesse in pochi mesi è aumentato dal 5,5% al 7,5%, con previsioni di ulteriore crescita. Questo insieme di fattori, dunque, potrebbe determinare un ulteriore indebolimento di un’economia già caratterizzata da eccessiva dipendenza dalle risorse petrolifere, da investimenti stagnanti, da bassa produttività nel settore manifatturiero e da un tasso di inflazione in rialzo. In un tempo non lungo, la popolazione russa rischia di ritrovarsi in uno scenario economico in evidente peggioramento, che potrebbe fare aumentare l’instabilità interna.