Buenos Aires è una "città poliedro". Probabilmente è stata lei a ispirare la celebre espressione di uno dei suoi figli più noti: Francesco, il "Papa porteño". Ogni faccia è un microcosmo solo apparentemente compiuto, c’è sempre un dettaglio che sfugge e rimanda all’insieme. Quell’entità sconfinata da 14 milioni di abitanti, di cui tre all’interno del perimetro urbano rappresentato dall’avenida-spartiacque General Paz e il resto oltre, negli agglomerati dormitorio della "provincia" che, ogni giorno, si muovono verso il centro. È tale marea umana l’ago della bilancia nell’imminente competizione elettorale. L’ultima dell’era Kirchner. O forse no. Quando finirà davvero la cosiddetta "epoca K"? Domenica, quando 22 milioni di argentini sceglieranno il successore di Cristina Fernández Kirchner, chiudendo 12 anni di potere alternato della "presidenta" e dell’ormai defunto marito Néstor? O fra quattro anni se, a spuntarla già al primo turno – i sondaggi lo danno al 40%, dieci punti in più dal rivale più vicino, Mauricio Macri –, sarà Daniel Scioli, del medesimo partito di Cristina? O con il ballottaggio del 22 novembre, a cui dovrebbero partecipare Scioli e Macri, a meno di un recupero all’ultimo del terzo contendente, l’ex kirchnerista ribelle Sergio Massa? Domande complesse, perché implicano una definizione chiara dell’"era K" iniziata poco dopo la devastante crisi del 2001, nutrita da anni di boom dei prezzi delle materie prime, sopravvissuta al calo del valore di queste ultime sul mercato internazionale. Una sfida pressoché impossibile. La polarizzazione nel Paese è tanto forte che kirchneristi e anti-kirchneristi danno due versioni opposte del presente. Si può, però, provare a osservare quest’ultimo da alcune delle varie facce del "poliedro Buenos Aires", ascoltando la voce delle persone che animano alcuni dei suoi indirizzi meno noti. Alla ricerca, se non di un giudizio esaustivo sul passato recente, delle questioni che, nell’immediato futuro, dovrà affrontare il nuovo inquilino della Casa Rosada. Calle Moreno 2472. Dalla soglia si intuisce il profilo del Congresso. Il cuore della politica porteña e l’Hogar San José sono, però, "universi paralleli". Quest’ultimo, da oltre 33 anni, assiste le persone senza fissa dimora. L’Hogar ha vissuto l’emergenza post crisi, quando anche migliaia e migliaia di esponenti della classe media sono finiti per strada dopo aver perso il lavoro e il conto in banca. La ripresa economica ha consentito ai professionisti di reintegrarsi nel sistema. «Sono rimasti fuori gli stessi di sempre: lavoratori senza qualifica, migranti interni e dall’estero, individui con fragilità psichiche o problemi personali, a cui in misura crescente si aggiungono ora i giovani dipendenti dal 'paco' (la droga dei poveri, ricavata dallo scarto della cocaina, ndr). Per questo non ci limitiamo a dare cibo e un letto agli ospiti. Cerchiamo di farli sentire esseri umani, con attività culturali, e a reinserirsi. Almeno la metà ci riesce», spiega il gesuita Alejandro Gauffín, direttore del Hogar. È difficile fare una stima del "popolo della strada": le Ong parlano di circa 18mila persone. Una parte del 5-6% di indigenti rilevati dall’Observatorio de la deuda social dell’Università Cattolica, tra i più prestigiosi centri di ricerca indipendenti del Paese. I suoi dati hanno sostituito quelli ufficiali da quando, nel 2008, il governo ha iniziato a manipolarli. La povertà, invece – cioè la mancanza di mezzi per vivere in modo degno – è al 28%, anche se l’esecutivo nega. Mentre l’inflazione alle stelle – circa 25 per cento – erode i salari. «La povertà è quasi dimezzata rispetto al record del 52% degli "anni neri", 2001-2002. Dunque, una riduzione importante vi è stata. I sussidi del governo hanno prodotto un risultato positivo affermando la responsabilità dello Stato, dopo il neoliberismo selvaggio anni Novanta, verso le fasce più deboli – afferma l’economista dell’Observatorio, Eduardo Donza –. Rimane, però, un numero importante di 'poveri strutturali', dipendenti dagli aiuti». Sono questi ultimi, lo "zoccolo duro" kirchnerista, da qui l’accusa di clientelismo. «Al prossimo presidente spetterà, in primis – aggiunge Donza – lo sforzo di prendere coscienza del problema. E provare a risolverlo. Non da solo, come tentato finora, ma attraverso un dialogo con i principali attori sociali, tra cui gli imprenditori». Villa 1-11-14. Un esperimento in tal senso è partito nella periferia – esistenziale dato che è situata a pochi passi dallo stadio del San Lorenzo –: la villa (baraccopoli) 1-11-14. «Stiamo creando un ufficio informale di collocamento, in parrocchia, per mettere in relazione la fame di opportunità dei residenti con i datori di lavoro», dice il parroco, padre Gustavo Carrara. Spesso, i pregiudizi portano a "scartare" gli abitanti delle baraccopoli. «Basta pensare che fino a dieci anni fa, le villas non erano segnate sulla mappa». A livello macro, è necessario sviluppare il sistema produttivo e attrarre investimenti per dare opportunità in particolare a quel 17% di giovani che non studia né lavora. Sono loro i principali protagonisti "dell’emergenza paco". Villa La Carcóva. Oltre la General Paz, nel sobborgo di León Suárez, la baraccopoli è labirinto di strade sterrate e case a metà. Là vivono i 40mila parrocchiani di padre Pepe Di Paola, il "prete anti-narco" in prima linea nel recupero dei dipendenti. «La situazione è grave e sta peggiorando. Nella villa arrivano gli scarti della droga, il business si fa fuori – afferma padre Pepe –. È bene ricordare che le baraccopoli sono le prime vittime del crimine». Della stessa opinione, Gustavo Vera, presidente della Fondazione Alameda contro la tratta e consigliere municipale. «L’Argentina è il primo consumatore latinoamericano di coca, con il 2,6% della popolazione, il terzo esportatore dopo Colombia e Brasile grazie alle sue 400 piste clandestine, il primo fornitore di efedrina ai narcos messicani. Questi ultimi sono ormai radicati: il Paese non è più solo un punto di passaggio ma produttore di droghe sintetiche». Viene da domandarsi la ragione di una infiltrazione tanto capillare. «La risposta è ovvia: l’estrema facilità di riciclare denaro e di eludere i controlli a causa di corruzione e impunità». Due parole pesanti, affiorate a più riprese negli ultimi 12 anni, che dovranno essere scritte a chiare lettere nell’agenda del nuovo presidente. «L’emergenza droga va combattuta con una triplice prospettiva – sostiene monsignor Jorge Lozano, presidente della Pastorale sociale di Buenos Aires e vescovo di Gualeguaychú –. Un serio lavoro educativo, una lotta ai narcos con tolleranza zero verso la corruzione e un coordinamento stretto tra giudici e forze di sicurezza. E un maggior impegno nel recupero dei dipendenti: ci sono pochi centri pubblici, intere province ne sono prive». Avenida 9 de Julio, quasi all’incrocio con la Avenida de Mayo. Curioso trovare, a due passi dall’Obelisco, un frammento di estrema periferia, non della città ma del Paese. Le 30 persone accampate da 249 giorni vengono dalla provincia settentrionale di Formosa. Sono indios dei popoli wichi, qom, nivaclé, giunti per rivendicare il diritto alla terra, minacciato dai latifondisti della soia e delle miniere. «Non ce ne andremo finché non incontreremo la presidenta», dice Ireneo, uno dei portavoce. Quest’ultima, però, li ignora. «Allora proveremo con il successore», ribadisce Jorge ostinato. Proprio come il don Chisciotte del monumento sotto il quale hanno piazzato le tende. «In questi 12 anni, l’Argentina ha fatto fondamentali passi avanti nella tutela dei diritti umani – dichiara Marcello Colombo, vescovo de La Rioja e voce dell’altra Argentina, quella non porteña –. Con l’abolizione delle leggi di amnistia e indulto, si è permesso fare i conti con il passato oscuro dell’ultima dittatura, cosa imprescindibile per vivere il futuro. Rimane in sospeso la questione dei 'diritti umani dell’oggi': quelli dei nativi, molti ancora privi dei titoli di proprietà, e delle popolazioni minacciate da deforestazione e megaprogetti». Plaza Augustín Justo, dietro la Casa Rosada. In conclusione, si può tornare al cuore della città e del Paese. In questa piazzetta, il candidato dell’opposizione, l’antiperonista Mauricio Macri, ha appena inaugurato una statua Juan Domngo Perón, fondatore dell’omonimo movimento. Segno di quanto quest’ultimo sia esso stesso un poliedro di cui, suo malgrado, ognuno dei tre sfidanti più quotati rappresenta una faccia.
Lavoro, cibo, dignità. Le attese della «periferia» sulle elezioni. (Lucia Capuzzi)
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI:
Opinioni
L'apertura dell'Anno Santo 2025 occasione per ripensare al Giubileo del 2000 che si snodò in un periodo non attraversato da grandi tensioni. Il legame tra allora e oggi è nel segno della speranza