E questo è il momento in cui dobbiamo tutti, ognuno per la propria parte, fare qualcosa di più per il nostro Paese e per ricostruire quel capitale sociale e quel senso civico che sono il collante fondamentale di ogni sistema sociale ed economico. La letteratura scientifica ci dice che il capitale sociale non è solo eredità di epoche lontane, tramandata di generazione in generazione. Esso può essere significativamente influenzato, nel breve periodo, dall’azione e dall’esempio dei rappresentanti politici. La nostra storia recente è, in questo senso, piuttosto sfavorevole, e ne abbiamo pagato e continuiamo a pagarne il prezzo.
La responsabilità dei nuovi eletti, oltre che nell’esempio personale che ci daranno, sta nel rendere governabile un quadro assai complesso attorno ad alcuni punti chiave fondamentali necessari per curare la gravissima 'crisi di speranza' che affligge il nostro Paese e che colpisce in egual modo i nostri progetti futuri: da quelli relativi ai nostri affetti (famiglia, natalità, scelte esistenziali) a quelli di lavoro e di impresa. In quest’ultimo settore, così decisivo, troppo spesso abbiamo assistito negli ultimi tempi agli esempi dati non da imprenditori, ma da 'prenditori' la cui rapacità, ispirata dal baco della massimizzazione del profitto a breve, si è rivelata distruttiva non solo per le realtà depredate ma anche per quegli stessi protagonisti. Non si tratta soltanto di dare spirito e slancio nuovi alla nostra società, ma anche di azzeccare le regole giuste per portarci fuori da una crisi che si conferma gravissima. Come abbiamo sottolineato più volte sulle colonne di questo giornale, i punti fondamentali non sono poi moltissimi.
Bisogna lavorare (secondo gli auspici dell’Unione Europea e l’esempio di alcuni Paesi membri) per una riforma urgente del rapporto tra finanza ipertrofica ed economia reale, 'rimettendo nella lampada' il genio cattivo della speculazione senza regole, e riparando il 'guasto' nel funzionamento della liquidità, che pur abbondante non riesce a finanziare come dovrebbe l’economia reale. Ci vogliono inoltre leader coraggiosi che non confondano l’europeismo con l’acquiescenza a una politica macroeconomica 'sparagnina', afflitta dalla falsa credenza del 'rigore espansivo' ormai sconfessata persino dal Fondo monetario internazionale, politica che la stessa Germania sta cominciando a pagare.
C’è bisogno, inoltre, di una riforma fiscale che sposti il carico dalle poste più vitali per il bene comune e la creazione di valore (come redditi, lavoro e famiglia) a quelle produttrici di effetti sociali negativi (inquinamento ambientale, inquinamento finanziario, beni di falso comfort come il gioco d’azzardo che producono dipendenze e che sono responsabili dello stordimento di giovani e vecchie generazioni).
Soprattutto se il panorama mondiale ed europeo non migliorerà, non ci resterà che procedere per colmare il gap di qualità tra il nostro sistema e quello tedesco. Uno sforzo comunque necessario che deve portarci ad azzerare i nostri divari, i tanti spread 'reali' nei confronti della locomotiva d’Europa (divario digitale, livello di istruzione, tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, tempi della giustizia civile, costi della burocrazia, difficoltà di avviare attività d’impresa).
Si tratta di un lavoro non certo semplice, ma che va perseguito con convinzione ed energia. Tutti questi sforzi rischieranno, però, di essere vani se non saranno guidati da un orientamento strategico volto a conciliare attività economica e benessere. Un orientamento che abbia ben chiari i problemi creati dai divari dei costi di vita e lo scenario di lenta convergenza tra Paesi poveri e Paesi ricchi, che comprenda la multidimensionalità dei problemi da affrontare (economia, ambiente, finanza, soddisfazione di vita) e che guardi pertanto non solo alla pura crescita quantitativa, ma finalmente e prioritariamente al modello qualitativo di sviluppo.
Tale orientamento richiede la comprensione e il superamento di tre visioni anguste di uomo, impresa e valore che ci affliggono. Individui non miopemente autointeressati (come certa cultura dominante ci porta a concepirli), ma capaci di sfruttare le potenzialità di cooperazione e di capitale sociale sono più felici e più utili per il loro Paese. Imprese socialmente e ambientalmente responsabili producono molto più valore economico e sociale della loro caricatura predatrice, instabile e portata all’autodistruzione. Questa è la via che può condurci fuori dal tunnel della crisi, rendendoci nuovamente capaci di creare quel valore che non è mera somma di beni e servizi venduti sul mercato, ma insieme di beni spirituali, culturali, economici, ambientali che rendono fertile una comunità e un Paese.
È abbastanza questo programma per trovare un comune denominatore tra forze molto diverse tra di loro o tra una parte di esse ? Non lo sappiamo, ma i nuovi eletti hanno il dovere di dimostrare il loro senso dello Stato e di provarci.