martedì 22 settembre 2009
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Corre voce, corre notizia che in Inghilterra sarà depenalizzata nei prossimi giorni l’assistenza al suicidio. Qualche giornale inglese ha già titolato così. Si aggiunge che non sarà una legge a provvedere, non sarà il Parlamento; ci penserà il Crown Prosecution Service, cioè la Procura generale del Regno. Si dice che il suo capo scriverà qualcosa come delle linee-guida, per stabilire che cosa sarà perseguito come delitto e che cosa no. Dirà che cosa la pubblica accusa intende per «assistenza al suicidio»; distinguerà quando un suicidio è stato soltanto assistito o invece è stato organizzato, spinto, incoraggiato, magari su persone «vulnerabili o sensibili alle manipolazioni». Si muoverà «secondo il pubblico interesse». Una rivoluzione? Riflettiamo. Un giurista deve dir subito, per chiarezza, che la Procura del Regno non ha il potere di cambiare le leggi del Regno. Se il proposito è una aggressione contro la legge di protezione della vita, esso nasce morto nel sistema giuridico inglese. La legge inglese punisce l’assistenza al suicidio con il carcere fino a 14 anni, e resta intatta (Suicide Act 1961). Se si vuol fare un raffronto, in Italia è prevista la reclusione fino a 12 anni, per chi determina o rafforza il proposito di suicidio o ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione. Oggi quel che viene esattamente sotto la lente è il concetto di "assistenza", e questo provoca positivamente la coscienza di tutti. Assistere significa letteralmente «stare vicino». Ma stare vicino a chi medita un suicidio che cosa vuol dire? Quale orizzonte giuridico, quale radice etica giudica il fatto di confortarlo, o dissuaderlo, o persuaderlo, o guardarlo passivamente mentre accade la morte, in dissenso disperato o in volontà condivisa? Come catalogare, dentro la legge positiva, partecipazione, indifferenza, sconforto, rafforzo? La cronaca odierna allaccia drammaticamente il proposito di suicidio di una donna (Debbie Purdy) al quesito sul rischio che corre chi l’assiste a morire (il marito). Parliamo allora di questi drammi umani "familiari" che ci scuotono fin nel profondo. Parliamone con dolcezza risoluta; accettiamo l’impatto della soglia dolorosa, sentiamo in noi l’emozione della disabilità estrema e della morte annunciata, spalanchiamo l’orizzonte del cuore. Ma teniamo fermo a ragione che nulla può scalzare il valore della vita e la sua "amabilità", cioè l’esser degna d’amore. Noi non ci rassegneremo mai alla filosofia dell’espulsione. Il rifiuto della vita, nella sua sofferenza, è la protesta violenta di un’assenza. È l’invocazione disperata di una presenza che "assiste", cioè che sta vicino. Qualche anno fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo si occupò di una contesa analoga a quella odierna. La causa si chiamava Pretty vs. UK, chiedeva un giudizio sul diritto a morire. La Corte disse che non è giusta, non è legale, non è umana, l’eutanasia. Disse anche che tutti i diritti e le libertà proclamate dalla Convenzione sono illusori, se non si difende il diritto alla vita. Forse il procuratore inglese saprà dirci domani che cos’è per lui un suicidio pulito, assistito in modo pulito come il suicida voleva che fosse fatto; o lasciato morire. Per noi un proposito di suicidio è lo scacco della nostra capacità di amore. E intanto il procuratore generale di Zurigo si indigna per i suicidi assistiti in diretta dentro il sacchetto di plastica all’elio. Tutto si tiene, tutto si spacca, nelle Procure del mondo. Ma è la giustizia della verità, il problema, la giustizia dell’essere insieme, la giustizia della vita.
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