domenica 29 agosto 2010
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L’estate declina, e il problema delle carceri è rimasto com’era, e resterà com’è. Quella subitanea attenzione d’un momento, quel pensiero ai "poveracci" arrostiti nelle celle mentre noi si pensa al ristoro delle vacanze, quel picco effimero di buonismo che celebra la sua virtuosa inutilità cede ora il passo alla routine del silenzio. Non è accaduto niente frattanto, niente di diverso, i soliti ammassi di corpi in ordinario e normalizzato tormento, i soliti suicidi, le solite disperazioni. Si è macinato dolore, un dolore immenso moltiplicato per gli uomini e per i giorni. Se si è raccolto frutto da questo dolore non lo sa nessuno, non ci sono censimenti sul "bene" che fa il carcere; chiederci a che serve diventa persino un radicale quesito, pensando al futuro. Ci guardiamo attorno, per confrontarci, e scopriamo che la situazione carceraria indegna, la inciviltà carceraria vorrei dire, non è una lebbra tutta italiana. Anche altrove è così. Nel Regno Unito, il sovraffollamento è a un livello insostenibile, l’incremento dei detenuti negli ultimi anni è vertiginoso, l’ingresso dei recidivi dopo aver scontato il carcere tocca il 60 per cento, il clima di violenza smentisce i progetti di riabilitazione. In Francia, quasi metà delle carceri non rispettano le norme europee; e vi si conta un record di suicidi, 115 l’anno scorso. In Spagna, il tasso di sovraffollamento è del pari altissimo. E così in Grecia. Il panorama è sconsolante, persino disperante, ogni volta che si riproducono all’interno delle varie nazioni europee le cifre del disagio, della tossicodipendenza, della fragilità mentale, della malattia, che accompagnano le cifre della punizione dei reati, in un intreccio di concatenata sofferenza. È forse maturo il tempo perché la civiltà europea, la civiltà giuridica comune, o semplicemente la civiltà umana, si chieda il perché del carcere e lo metta in discussione. Non dico "il perché della pena", dico il perché si è rovesciato il concetto di pena nel "trattamento" del carcere, quest’antica invenzione di tortura per i "nemici". La nostra Costituzione non parla di carcere, parla di pena e dice che deve consistere in trattamento che tende all’emenda. Se non lo fa, è sbagliato. Ora, quanto il carcere abbia emendato i devianti, negli ultimi vent’anni, ce lo dice la storia e la statistica: negli ultimi vent’anni i carcerati sono raddoppiati, dappertutto, in Italia e in Europa. E anche i dati delle Nazioni Unite dicono che la crescita della popolazione carceraria nel mondo ha assunto l’aspetto di un fenomeno globalizzato. Così adesso il Comitato per la prevenzione della tortura costituito in seno al Consiglio d’Europa dice che il sovraffollamento è «trattamento inumano e degradante» e chiede ufficialmente i Paesi membri di cambiare le politiche punitive. Non aggiungendo nuove celle, bensì chiedendo espressamente soluzioni alternative alla detenzione. Questo fallimento diffuso non attenua la nostra vergogna, la nostra interna tragedia. Piuttosto chiede a noi italiani un soprassalto di coerenza con le nostre radici di civiltà giuridica, di sapienza e di umanesimo. Possiamo insegnare qualcosa al mondo, se vogliamo, proprio in questo campo, se sperimentiamo che la pena è una "penitenza" e una penitenza è qualcosa che salva, non che spezza, non che avvilisce e sciupa il dolore umano. No, basta carceri così. Dobbiamo inventare rimedi di penitenza condivisa, motivata, persuasa. Aspra se occorre, ma orientata al mutamento e all’accoglienza e non più all’espulsione e all’ostilità.
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