In assenza di un codice di condotta valoriale la scienza dei farmaci conduce inevitabilmente a scelte inumane È positiva la decisione presa da due industrie di mettere a disposizione gratuitamente i loro farmaci, che sembrano essere attivi contro l’infezione. Non sempre le multinazionali hanno operato in questo modo - Reuters
La necessità di cooperare tra diverse realtà nella difficile ricerca di un antidoto Scienza ed etica: un binomio inscindibile quando si tratta della salute umana. È il modo d’agire di tutti coloro che in prima fila lavorano per arginare l’avanzata del coronavirus e che s’impegnano nella cura dei malati. Deve essere però anche la caratteristica di chi nella retroguardia compie un’azione non meno importante nel ricercare e produrre farmaci e vaccini per battere la pandemia. Alludo in particolare alle industrie farmaceutiche. Svolgono un ruolo scientifico importante per la ricerca, hanno un peso rilevante nella produzione di presidi preventivi e di rimedi curativi, devono avere anche un adeguato atteggiamento etico che concili le legittime esigenze economiche con la responsabilità sanitaria e sociale di cui sono investite. Il loro codice di comportamento deve tenere conto che farmaci e vaccini non sono prodotti commerciali come tanti altri, ma presidi indispensabili per la salute. Queste implicazioni devono fare sempre anteporre l’interesse collettivo a quello esclusivamente industriale. La drammatica situazione che stiamo vivendo deve far riscoprire alle industrie più antiche lo spirito di solidarietà che aveva caratterizzato, più di un secolo fa, la loro nascita e suggerire a quelle moderne canoni operativi ispirati a un giusto equilibrio tra esigenze imprenditoriali e istanze sociali.
A metà Ottocento la nascita di medicamenti per sintesi chimica (non più estratti da piante o minerali, ma composti 'costruiti' artificialmente in laboratorio) aveva avviato il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica, facendo del farmaco un rimedio innovativo per le sue capacità curative e per la sua ampia disponibilità, ma anche un prodotto commerciale in grado di generare un profitto economico e, come tale, sottoposto alle rigide regole del mercato commerciale. Gli imprenditori che avevano sviluppato queste fabbriche univano alla competenza tecnico-scientifica una sensibilità antropologico- sociale che li portava a ricercare e produrre farmaci in grado di rispondere innanzitutto al bisogno di salute della popolazione e non finalizzati esclusivamente a soddisfare esigenze economiche. La loro 'aggressività commerciale' era contenuta e bilanciata dall’'impegno etico' profuso in ambito sanitario e sociale.
Valori e ideali oggi spesso dimenticati da molti manager delle moderne multinazionali. Li ritroviamo nella decisione presa da due industrie di mettere a disposizione gratuitamente i loro farmaci, che sembrano essere attivi contro l’infezione del nuovo coronavirus, per effettuare le sperimentazioni terapeutiche su larga scala autorizzate dall’Agenzia nazionale del farmaco (Aifa). Si tratta della multinazionale svizzera Roche (nata nel 1896), l’industria che produce il Tocilizumab ( Tocivid), un anticorpo monoclonale usato per la cura delll’artrite reumatoide, che si è dimostrato efficace nella polmonite da Covid-19, e dalla statunitense Gilead (fondata nel 1987) che fabbrica il Remdesivir, un antivirale impiegato con successo per contrastare altre recenti epidemie (Ebola, Sars). Un’ulteriore possibile sperimentazione potrebbe riguardare un altro antivirale di origine giapponese, il Favipiravit (Avigan), utilizzato nelle forme influenzali. Attualmente per la terapia dei pazienti ricoverati si utilizzano combinazioni aspecifiche di diversi antivirali (farmaci che bloccano la replicazione del virus) impiegati in passato per altre gravi infezioni. Nuove prospettive sembrano essere aperte dal possibile uso di un altro farmaco (anch’esso un anticorpo monoclonale) messo a punto da un gruppo di ricerca di un’università olandese, in grado di riconoscere selettivamente la proteina che il virus utilizza per aggredire le cellule respiratorie. Una potenzialità importante per il trattamento e la prevenzione delle complicanze legate all’infezione di Covid-19.
L’Italia è la prima, in Europa e nel mondo occidentale, a sperimentare su larga scala i farmaci attualmente utilizzati per il trattamento della nuova malattia, anche sulla base dei dati forniti dall’esperienza cinese. La soluzione definitiva sta però nella realizzazione di un vaccino. Alcuni giorni fa un volontario negli Stati Uniti si è fatto somministrare in via sperimentale un vaccino anticoronavirus, mentre una giovane azienda italiana, la biotech Takis, è pronta a iniziare la sperimentazione di un suo vaccino sugli animali: il primo passo per arrivare all’uso umano. È solo l’inizio di una lunga corsa alla ricerca di un antidoto efficace (a oggi sono ben 35 i vaccini candidati) nella quale sono impegnate industrie farmaceutiche in tutto il mondo, i cui risultati però vedremo verosimilmente non prima di un anno.
Ora più che mai per questa battaglia di civiltà e di salute contro la pandemia è indispensabile procedere uniti. Più che la concorrenza tra aziende e la riservatezza tra scienziati conta la collaborazione scientifica, istituzionale e industriale, non solo su scala europea ma a livello mondiale. Quando una minaccia è globale, anche lo sforzo per superarla lo deve essere. Se poi si trova un rimedio in grado di risolvere o superare un problema sanitario mondiale è etico che esso venga reso disponibile per tutti a costi accettabili. Proprio in tema di vaccini salvavita abbiamo un esempio recente di un modo esemplare di procedere. Albert Sabin (1906-1993), l’ideatore del vaccino orale contro uno dei grandi flagelli mondiali del secolo scorso, la poliomielite, non fece brevettare la sua invenzione per permettere all’industria di metterla a disposizione di tutti a basso costo. Grazie alla sua generosità e al suo senso etico la poliomielite sta per essere completamente eradicata dalla terra, come è accaduto nel 1980 per il vaiolo. I n questo contesto la vicenda di un presunto tentativo di un’azienda tedesca, la CureVac, di cedere in esclusiva agli Stati Uniti un vaccino in grado di contrastare i contagi provocati dal Covid- 19 accettando una rilevante somma offerta dall’Amministrazione americana, anche se poi bloccata e rientrata, induce a riflettere sul rischio latente che nell’industria farmaceutica la componente economica possa essere cinicamente ritenuta l’unico fine da perseguire, perdendo di vista il valore sanitario ed etico che è alla base di questa peculiare tipologia di produzione. Come ha sottolineato il direttore Marco Tarquinio in un editoriale qualche giorno fa, indegno il solo pensiero di proporre un simile baratto, aberrante l’idea che qualcuno lo possa accettare. Senza codice etico la scienza dei farmaci conduce inevitabilmente a scelte inumane.