«Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme». Lo scrive Francesco nel Messaggio per la 54esima Giornata delle Comunicazioni sociali. Quanto è vero, lo sappiamo tutti. Ci sono giorni in cui tg e giornali e web da tutto il mondo riferiscono di una tale mole di ingiustizia e violenza, che viene da disperare. Da dirsi che questo mondo è così sbagliato e inquinato dal male, che non c’è nulla da fare. Voglia di non leggere né vedere più nulla: di non sapere. Ma, insiste Francesco, occorre «una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri».
È la sfida che accompagna chi fa comunicazione e non vuole fare audience allargando paure, sospetti, talvolta anche orrore. È facile gonfiare i contatti sul web, raccontando i minimi dettagli di un omicidio: c’è qualcosa, nel male, che segretamente ci affascina. Più difficile è scorgere anche nel male e nel dolore un punto, magari minimo, di umanità, di nostalgia di bene: perfino dentro una storia turpe, oppure in una di quelle sciagure naturali che annientano gli uomini, come fossero solo formiche. Penso a certe mattine lontane nella nebbia di un’altra Milano, agli spacciatori ammazzati nei regolamenti di conti notturni. All’alba erano ancora stesi su un marciapiede di periferia. La giovane cronista di "nera" che ero ascoltava i commenti dei passanti. «Tanto meglio, uno di meno», dicevano, e tiravano diritto. Ma il morto aveva vent’anni, e quando suonavi alla porta di casa trovavi una madre, muta di dolore e di vergogna. Che dopo un po’, guardando fisso per terra, cominciava a dire di quando lui era un bambino che andava in bicicletta in cortile, e correva su sorridente, all’ora di cena. «Da piccolo, sa – diceva quella donna quasi con timidezza – mio figlio non era cattivo». E allora avresti voluto scrivere un’altra storia, non di droga e esecuzioni: la storia di una madre venuta dal Sud con tanti figli, della sua grande fatica, della sua impotenza. La storia – tra quei brutti palazzi uguali, tra quei passanti ostili – di un povero grande amore.
Oppure, tanti anni dopo, quella stessa cronista nell’Indonesia devastata dallo tsunami. Uno scenario terrificante: ponti divelti, Tir accartocciati come dalla mano di un gigante. E cadaveri, dopo dieci giorni, ancora galleggianti nel fango, sotto agli occhi della popolazione annichilita, immobile sulle soglie delle case rimaste in piedi.
L’apocalisse, pensavi, pure tu annientata da quella massa di melma nera che copriva ogni cosa. Ma, vicino a un molo, degli ambulanti avevano rimesso su dei miseri banchetti con verdura, e polli; e da una radio, per caso, suonava, struggente come una preghiera, la voce di Bob Dylan, Knockin’ on Heaven’s door, bussando alla porta del paradiso. E in quell’umile ansia di tornare a vivere c’era già un’altra storia, buona. Come nell’ostinazione del giovane missionario camilliano americano che, la gran croce sulla tonaca, percorreva a lunghi passi la distesa di fango e prometteva: «Qui faremo un ospedale».
O, ancora, nella Rimini della notte, trovarsi a seguire don Oreste Benzi fra le prostitute. Alla luce dei falò ai bordi dei viali di periferia quei volti di donne assenti, come diventate automi. Ma a volte il vecchio prete in tonaca nera riusciva a sciogliere il muro, e una di loro si metteva a raccontargli la sua storia. Gli occhi vivi sotto il trucco pesante, nell’audacia di confessare un sogno: «Sai, mi piacerebbe smettere».
C'è un bene nascosto sotto al male, che occorre cercare e raccontare. Perché è quello, che ci fa vivere. «Quando immettiamo amore nelle nostre storie quotidiane, quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni, allora voltiamo pagina », scrive il Papa. «Con lo sguardo del Narratore – aggiunge – ci avviciniamo poi ai protagonisti, ai nostri fratelli e sorelle, attori accanto a noi della storia di oggi. Sì, perché nessuno è una comparsa nella scena del mondo, e la storia di ognuno è aperta a un possibile cambiamento».
E questo bene nascosto in fondo al male e al dolore, dobbiamo narrarlo ai figli. Perché facciano memoria del bene ricevuto da chi li ha generati, e questa memoria si faccia speranza. Come la memoria della fuga dall’Egitto, e del Mar Rosso miracolosamente spalancato sotto ai loro piedi, si fece memoria per il popolo ebraico – memoria fedele, in millenni di persecuzioni.
«Per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone». Come è profondamente vero. Come, magari senza saperlo, abbiamo bisogno di tornare, frastornati dal rumore e dalle parole vuote, alla fine a questa sorgente.