Lacune e iniquità, ma anche disfunzioni e sprechi. I limiti e le criticità del nostro attuale modello di welfare sono ampiamente noti e dibattuti. Altrettanto noto è il quadro delle compatibilità finanziarie aggravato da una crisi economica internazionale che non consente significativi margini di azione alla iniziativa di indirizzo e guida politica del Paese.
È possibile aggiungere qualcosa di nuovo, a quanto già sappiamo e abbiamo detto, sul piano della analisi e, soprattutto, della proposta? Per i tecnici e gli esperti probabilmente sì. Non sono del resto mai mancati, in tutti questi anni, ambiziosi progetti di riforma e tentativi, più o meno andati a buon fine, di riordino e riequilibrio della spesa sociale. Da ultimo la riforma Monti-Fornero con cui si è avviata una revisione complessiva del nostro sistema pensionistico in una ottica di equità intragenerazionale e inter-generazionale. E già all’orizzonte si profilano gli interventi correttivi allo studio del nuovo governo. Tra di essi l’ipotesi di un rinnovato 'patto generazionale' che, attraverso l’idea di una staffetta lavorativa tra giovani e anziani, sembra muoversi in una direzione opposta a quella appena intrapresa con l’allungamento della età di lavoro. Vedremo. L’impressione, tuttavia, non è solo quella di una laboriosa tessitura della famosa tela di Penelope in attesa di qualche segnale positivo dai mercati finanziari internazionali. La verità è che si è quasi sempre trattato di interventi parziali e limitati. Non solo perché i relativi provvedimenti sono stati adottati sull’onda emergenziale, perseguendo una impostazione alquanto semplicistica di taglio lineare dei costi, come bene dimostra la dolorosa e macroscopicamente iniqua vicenda dei lavoratori 'esodati'. Ancor più manifesta, in tutti questi provvedimenti emergenziali, è stata l’assenza di una solida risposta antropologica e valoriale. Una risposta che metta cioè la persona – con le sue insicurezze, ma anche con i suoi talenti e le sue potenzialità – al centro dei tumultuosi cambiamenti economici e sociali in atto su scala planetaria. È proprio questo, a ben vedere, il valore aggiunto – e anche il tratto distintivo – del rapporto-proposta sul lavoro realizzato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, oggi guidato dallo stesso presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, che segue quelli su demografia ed educazione. Una sequenza non casuale – come spiega nella prefazione il cardinale Camillo Ruini, che del Comitato è stato il primo presidente – in ragione della intima connessione e interdipendenza tra qualità della educazione, andamento demografico e dinamiche occupazionali. Del resto è proprio l’Italia dei mille paradossi quella che emerge dalla analisi degli andamenti del nostro mercato del lavoro. Tra i tanti colpisce, in particolare, quello dell’elevato tasso di disoccupazione e inattività di una popolazione giovanile sempre più numericamente limitata, perché si fanno meno figli, e maggiormente scolarizzata del passato. L’insistenza del rapporto sulla centralità dell’aspetto antropologico non intende certo sottovalutare e tanto meno negare la dimensione economica e produttiva del lavoro. Vero è, tuttavia, che una risposta ai bisogni materiali, per essere duratura e solida, deve seguire e non precedere l’attribuzione di un preciso valore e significato alla esperienza del lavoro. Una esperienza che va ben oltre il mero scambio economico se intesa come sede di sviluppo integrale della persona e ambito di relazioni sociali degne dell’uomo. Una visione, questa, che richiama la necessità, prima di qualunque soluzione tecnica e legislativa, di un rinnovamento culturale che coinvolga non solo le istituzioni, ma anche le imprese, i sindacati, la scuola e la famiglia. È questa la sola prospettiva che ci potrà aiutare a guardare con fiducia al futuro forti di nuovi paradigmi interpretativi attraverso cui leggere e governare quell’imponente cambiamento tecnologico e organizzativo che oggi è in atto nei mercati lavoro.