C’è qualcosa di stridente nelle notizie che aggiornano continuamente il numero di morti per il sisma che l’altro ieri ha colpito l’isola di Sumatra. È il modo ovattato in cui giungono. È l’impercettibile violenza del gap comunicazionale che le distanziano dalla battente mediatizzazione dei 300 morti dell’Aquila, con il successivo G8 e i grandi del mondo in passerella tra le macerie, fino ai riflettori puntati, nelle ultime settimane, sulla consegna delle prime case. Tutte fasi importanti, comprensibilmente vicine al cuore di noi italiani, e tanto più di noi abruzzesi. Però la sensazione di un’inavvertibile violenza aleggia, in queste ore in cui Sumatra tiene banco in tutti i notiziari. E non è nuova. È la stessa che si era avvertita nei giorni scorsi rispetto al tifone e allo tsunami, con un minor di numero di vittime, nel Sudest asiatico e nelle Samoa Americane. È la stessa del terremoto nel Sichuan cinese, a maggio del 2008, prima delle Olimpiadi di Pechino, il cui conteggio delle vittime non fu neanche completato dai media – si scrisse 7.000 morti, 8.000, 10.000 o molti di più – finendo ingoiato e fagocitato da altri osceni interrogativi: le Olimpiadi si sarebbero svolte ugualmente? Ne avrebbero risentito le fastose cerimonie di apertura, con cui il drago celeste ridestatosi intendeva stupire il mondo? E allora sta proprio a noi abruzzesi – che del terremoto abbiamo fatto recente esperienza con questi trecento morti, e più antica esperienza, con decine di migliaia di vittime, nel 1915, 1706, 1703, 1456, 1349, fino a risalire agli anni senza data dei secoli bui dell’altomedioevo e del tardo impero – alzare la voce per una sottolineatura di dissenso. Sì, proprio a noi, 'beneficiati', sotto un certo profilo, da tanta mediatizzazione, dopo la tragedia. E guai se non dissentissimo. Perché vorrebbe dire che anche a noi il terremoto di Sumatra e le altre sciagure sembrano eventi di un altro pianeta, terremoti marziani, di una terra rossastra e disabitata, su cui atterrano le astronavi nei film di fantascienza: terremoti da fiction. Solo che Sumatra non è una fiction. Le isole e le coste stravolte dagli uragani non sono una fiction. Le Samoa non sono una fiction. Il Sichuan non è una fiction. E neanche lo tsunami del 2004, coi suoi 230.000 morti. Il dolore, prima ancora, non è una fiction. Questo va detto alzandosi con l’indice dritto, a reclamare, fuori dal coro. L’impero della mediatizzazione, con l’ovattata violenza dei suoi riti & miti, persegue infatti un trend fisso: espropriare l’uomo della facoltà di giudizio; sottrargli tempo per la riflessione; inibirgli la meditazione, per usare una magnifica parola – meditazione, appunto – resa oggi desueta quando non ridicola, o confinata in limacciose pratiche new age. La mediatizzazione è nemica della meditazione. L’ha in odio. La teme e l’allontana, avverte che in essa c’è il germe dissolutivo del suo distorto assioma di fondo, quello per cui il dato non va meditato, sistematizzato, 'coscientizzato', bensì solo aggiornato. Ecco perché il terremoto di Sumatra ci appartiene quanto quello dell’Abruzzo. Al dolore di chi è più povero appartiene anche il nostro dolore. L’Italia è parte di un’antica civiltà nel cuore del mondo occidentale, o nei suoi dintorni, almeno. A questa civiltà appartenne, nel 1500, un pensatore che si chiamava Michel de Montaigne, che sulle travi della torre dove meditava fece incidere un aforisma di Terenzio, di 1700 anni più antico di lui: homo sum, humani nil a me alienum puto, sono un uomo e nulla di ciò che sia umano giudico indifferente a me. Duecento anni dopo Terenzio, Paolo di Tarso, gridando appassionatamente le parole di un altro Maestro, scrisse: non c’è più né giudeo né greco, né libero né schiavo, né uomo né donna, perché tutti siete uno. Oggi queste parole ci sono usuali. Proviamo a calarle nella violenza dei rapporti sociali e della cultura del I secolo dopo Cristo, per capire cosa hanno portato nella storia dell’uomo. Sono i maestri del pensiero a indicarci oggi Sumatra. Non c’è L’Aquila e non c’è Sumatra. Le sillabe della remota lingua indonesiana salgono – con gli stessi toni dolenti della perdita e del lutto, là dove ogni perdita è ritrovamento e ogni lacrima è asciugata – dai nostri monti d’Abruzzo.