Man mano che la cosiddetta "Buona Scuola" è stata discussa e poi approvata, abbiamo analizzato e commentato su queste colonne i punti più controversi del provvedimento, sempre senza preclusioni preconcette ma anche con lo sguardo critico indispensabile quando si tratta di mettere mano in termini complessivi a un settore importante e delicato come l’istruzione.
Spesso abbiamo avuto l’impressione che a certe idee in sé buone sia corrisposta una declinazione pratica decisamente meno buona. Ora, con il documento pubblicato dal Ministero dell’Istruzione in data 3 ottobre 2016 con il titolo «Piano per la formazione dei docenti 2016-2019», trova attuazione un altro dei princìpi cardine della legge 107/2015, vale a dire l’aggiornamento obbligatorio dei docenti. Nel Contratto nazionale del personale scolastico relativo al triennio 2006-09 (tutt’ora in vigore perché, scaduto ormai da 7 anni, non è stato mai rinnovato) si parlava di "diritto" all’aggiornamento, mentre ora, con la "Buona Scuola", l’enfasi viene posta sul concetto di "dovere", giacché si parla, in più punti della legge, di «obbligo di formazione in servizio». Che tipo di aggiornamento e di formazione permanente viene previsto? Il decreto attuativo rilasciato dal Miur dettaglia la questione nelle 88 pagine di cui è costituito.
Lo stile tipicamente "ministeriale" (infarcito di acronimi, anglismi e tecnicismi) a cui è improntato il testo dà adito a più di qualche oscurità. Tuttavia vengono individuate 9 priorità sulle quali organizzare i corsi per i docenti: autonomia organizzativa; didattica per competenze e innovazione metodologica; competenze digitali; lingua straniera; inclusione e disabilità; prevenzione del disagio giovanile; integrazione e competenze di cittadinanza; scuola e lavoro; valutazione e miglioramento. Non bisogna essere esperti della materia per capire che appare del tutto assente la previsione di una formazione di tipo culturale relativa alle diverse discipline oggetto di insegnamento. Come se insegnare utilizzando il computer fosse più importante di che cosa si insegna…
Ma come dovrebbe svolgersi concretamente l’aggiornamento? In ognuno degli ambiti territoriali in cui sono state raggruppate le scuole, verrà individuata una scuola-polo, che organizzerà i corsi, ai quali parteciperanno pochi docenti di ogni istituto dell’ambito, che poi a loro volta formeranno i propri colleghi. I docenti verranno valutati dai dirigenti anche sulla base dell’ottemperanza a tale obbligo e, soprattutto, della ricaduta diretta di questa attività formativa sulla didattica in classe, più che sulla loro reale conoscenza della disciplina che insegnano. Ciò varrà anche al momento del conferimento degli incarichi triennali da parte di una singola scuola ai docenti presenti in un certo ambito territoriale: quando un preside dovrà scegliere un professore, poniamo, di Lingua e letteratura italiana, lo farà – questo gli chiede la legge – sulla base delle certificazioni informatiche e linguistiche, più che valutando la preparazione nella materia di cui l’aspirante è titolare.
Il problema è chiaro: mentre va accolta con favore l’attenzione alle dimensioni dell’inclusione, della prevenzione del disagio giovanile, della lotta alle problematiche sociali e alla dispersione scolastica, appare invece ancora una volta eccessiva l’enfasi posta sulla didattica per competenze (che è diventata una vera e propria "moda" negli ultimi anni, ma la cui reale efficacia viene oggi messa in discussione da più di un pedagogista), sugli strumenti informatici, sull’inglese e sull’alternanza scuola-lavoro, come se i contenuti disciplinari potessero passare in secondo piano rispetto a tutto un armamentario metodologico oggi considerato "politicamente corretto".
Se la scuola della riforma Gentile aveva al proprio centro "conoscenze", "competenze" e "capacità", oggi le prime sembrano essere del tutto scomparse dall’orizzonte epistemologico di chi formula leggi e programmi non solo per gli alunni, ma anche per maestri e professori. Negli ultimi decenni sono cambiati i governi e i colori politici delle maggioranze parlamentari, ma l’esecutivo di Matteo Renzi pare collocarsi in questo sulla scia di Letizia Moratti (ministro dell’Istruzione dal 2001 al 2006 nel secondo e terzo governo Berlusconi) e della sua scuola "delle tre I": Inglese, Impresa, Informatica. Ciò che parecchi docenti paventano è che la scuola, da centro propulsore di democrazia, di confronto aperto, di autonoma elaborazione culturale, di formazione integrale di persone e di cittadini, per questa via diventi un luogo in cui debbano essere messe pedissequamente in pratica impostazioni pedagogiche (e ideologiche) calate dall’alto, in barba alla libertà dell’insegnamento garantita (almeno finora) dall’articolo 33 della Costituzione.