lunedì 26 maggio 2014
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​La Giornata Mondiale dell’Africa, che si celebra oggi, è un’occasione privilegiata per fare il punto sulle condizioni di salute del continente. Pur tenendo conto dell’influsso pervasivo della globalizzazione, sia a livello economico che geopolitico, il modello statuale africano è un insieme complesso di fattori che solo in parte sono di derivazione esterna. Le forme di governo, se pur integrate nell’economia capitalista, sono molto spesso espressione di gruppi di potere oligarchici che non solo controllano l’apparato produttivo, ma riescono anche ad interagire con le società tradizionali, dando grande risalto all’informalità. Da una parte si riscontra una crescita significativa del Pil e un rilevante aumento dell’occupazione, dall’altra affiorano gli antichi mali, legati all’esclusione sociale e al deficit di virtuosismo da parte delle leadership locali. Fenomeni come il land grabbing (l’accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere) – con modalità diverse, a seconda dei Paesi – unitamente allo sfruttamento della manodopera, sono radicati in ogni nazione. Se le istituzioni politiche, come nel caso della Nigeria, interagiscono sul piano formale utilizzando i codici occidentali, dichiarando ad esempio guerra ad ogni forma di sovversione contro lo stato di diritto, al contempo si generano alchimie politiche e contrapposizioni etnico-religiose che penalizzano la partecipazione popolare e il dibattito democratico. Inoltre i processi elettorali coinvolgono solitamente gruppi di potere e l’esito rispecchia dinamiche regionali o etniche anziché essere espressione di un’alternanza.Col risultato che i cambiamenti avvengono frequentemente a seguito di guerre civili e colpi di stato: è il caso di Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo. Qualora, invece, si dovesse riscontrare una discreta stabilità – a volte con evidenti progressi economici come nel caso di Angola, Uganda, Ruanda, Camerun, in altri casi con la stagnazione sociale e l’implosione economica (Eritrea docet, per non parlare dello Zimbabwe) – l’azione di governo è sempre saldamente in mano a regimi che resistono al tempo per l’appoggio incondizionato delle forze armate. Ecco che allora sarà sempre l’uso della forza (più o meno camuffato dalla propaganda) l’elemento discriminante per affrontare i problemi. Sebbene vi sia, a livello continentale, una significativa maturazione del diritto di cittadinanza (ad esempio, in Ghana e in Senegal), in molti Paesi le élite dominanti tendono a soffocare ogni forma di dissidenza. E dire che la società civile, se fosse debitamente valorizzata, potrebbe rappresentare il vivaio di nuove classi dirigenti in grado di servire con maggiore dedizione il bene comune. Se a tutto ciò aggiungiamo i pesanti condizionamenti derivanti dalla sponda mediterranea (in particolare la crisi libica e quella egiziana) con la crescente penetrazione di cellule jihadiste nella fascia subsahariana, il tanto declamato Big Deal africano andrebbe quantomeno ridimensionato. Una cosa è certa: l’esodo delle popolazioni afro che sta interessando l’Europa, prim’ancora che essere una crisi umanitaria, è una crisi di conoscenza dell’Africa. Un’operazione resa difficile dai forti condizionamenti dell’apparato massmediale generalista, renitente davanti alle prospettive di un dibattito sul merito dei problemi internazionali. Il consesso europeo contesta all’Africa l’emigrazione clandestina, il terrorismo, i traffici illeciti e la corruzione. Come se toccasse solo all’Africa risolvere le contraddizioni del mondo globalizzato.
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