Alla battuta di Raffaele Cantone, sulla perduta integrità della capitale italiana, sarebbe bello poter rispondere che noi gli anticorpi romani, capaci di combattere l’incuria, superare l’immoralità e sanare il degrado, li conosciamo bene e vorremmo tanto che li considerasse degni di nota anche lui: si chiamano Giulio, un mio ex studente della Magliana; Vittorio, un elettricista del Tiburtino e Paola, volontaria di Centocelle. Uso il condizionale perché voglio scoprire gli ingranaggi aprendo uno spazio d’incertezza nel mio stesso ragionamento prima ancora che su quello impostato dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Dobbiamo trovare la forza di credere di più in quello che facciamo. È vero: la trionfante civiltà mediatica ci obbliga alla sintesi sbrigativa, al duello spettacolarizzato e allo schema sociologico, tuttavia mi piacerebbe non trattenere il moto d’insofferenza che provo per questo modo di procedere: Roma e Milano, lealtà e fraudolenza, bene e male, nord e sud, bianchi e neri. Che la protervia e l’arroganza, l’egoismo e il malaffare corrispondano a un tratto antropologico della specie cui apparteniamo e non possano certo essere ridotti in chiave geografica, sono certo che lo diamo tutti per scontato, così come l’opposta speculare consapevolezza riguardo alla natura buona e generosa di alcuni. Ma allora di cosa stiamo parlando?Io credo che il tema-fondamento di questa polemica sia la luce dei riflettori, accesi come fari fissi sui romanzi criminali e sulle suburre contemporanee e clamorosamente spenti altrove. È una vecchia questione: secondo qualche studioso, il tarlo del Novecento. Sì al delirio, all’ebbrezza, allo smarrimento. No al rigore, al limite, alla responsabilità. Non stiamo invocando santini edificanti da contrapporre ai più loschi figuri, questo non farebbe altro che spingere molti di noi verso i secondi disdegnando i primi. Piuttosto dovremmo rinnovare il linguaggio, ripristinare i canoni estetici, rifiutare i ciarlatani. L’unico che sembra aver compreso la dimensione ermeneutica della crisi etica che stiamo vivendo è papa Francesco: ne conveniamo, un romano d’eccezione. Nella maggioranza dei casi rischiamo di appiattirci in uno sterile gioco di schieramenti lasciando campo libero al teatrino della politica, costantemente enfatizzato dalle televisioni, con gli squallidi risultati che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno quando osserviamo i comportamenti all’interno delle camere legislative. Giulio era un ripetente, bocciato due volte in prima superiore, al quale chiesi di insegnare la lingua italiana agli immigrati. Lo fece un anno intero senza che gli avessi promesso niente: né voti alti, né crediti scolastici. Vittorio, se non è impegnato a lavorare, guida gratis l’ambulanza del 118 per andare a soccorrere i malati. Paola è una pensionata che la mattina presto si reca al Baobab, centro di accoglienza nel quartiere di San Lorenzo che, dopo essere entrato nelle cronache cittadine di "mafia capitale", ospita oggi i profughi in transito. Lei serve la colazione, sparecchia, si rende utile in vari modi e, come centinaia di altri cittadini, offre a quei disperati generi di prima necessità. Il Baobab non riceve finanziamenti istituzionali e funziona solo grazie ai donatori e soprattutto al lavoro dei volontari.Ecco quali sono gli anticorpi di cui abbiamo bisogno e che dobbiamo imparare a riconoscere e valorizzare. Ce ne sono innumerevoli, giovani e adulti, donne e uomini, spesso invisibili, anche se magari abitano accanto a noi. Persone comuni in grado di fare la rivoluzione. Piccola. Una al giorno. Fuori e dentro l’Urbe imperitura. Senza fretta. Con la potenza di chi non vuole niente in cambio.