Irrigazione tradizionale di un campo con pompe e cisterne a Borgo Mantovano, nei pressi del fiume Po - Ansa
L’Italia si è capovolta: al Sud piove anche troppo (e l’acqua fa danni), al Nord una leggera pioggerella è ormai accolta come un miracolo. La Pianura Padana al pari del deserto del Sahara, verrebbe da dire. E che sia colpa del cambiamento climatico ormai è risaputo. A cominciare dagli agricoltori che, prima che alle cause, guardano a quali rimedi adottare di fronte a una situazione che sta mandando all’aria i bilanci di molte imprese e compromettendo il grado di approvvigionamento di diverse filiere alimentari. Cambia, dunque, il modo di fare agricoltura nella Pianura Padana, una delle più fertili pianure europee. Con la buona tradizione agricola che viene rispolverata e le più avanzate tecnologie che dimostrano tutte le loro potenzialità.
Sempre di più, infatti, si profila oggi la necessità di mettere in campo le tecniche di aridocoltura (in inglese: dry farming), cioè tutti gli accorgimenti possibili per far crescere le coltivazioni senz’acqua o comunque con un apporto minimo di risorse idriche. Tecniche da aree siccitose, “tecniche africane” che a nord del Po non sono quasi mai state prese in considerazione. Non solo quindi l’irrigazione di precisione (che fa cadere anche singole gocce d’acqua calibrate nel tempo), ma anche l’uso delle acque reflue, di particolari lavorazioni del terreno che riescono a fargli trattenere la poca umidità che ancora c’è e, soprattutto, un’accorta scelta di cosa coltivare. Ed è forse proprio in questo ambito che la mancanza d’acqua ormai cronica potrebbe spingere a un vero cambiamento. Le grandi aziende basate sulla zootecnica (da carne e da latte) e su particolari coltivazioni da foraggio, come i prati permanenti e il mais, rischiamo infatti di avere vita breve, o almeno difficile. Con tutto quello che ne consegue per la produzione lattiero-casearia. Ma anche molte coltivazioni orticole potrebbero avere enormi difficoltà in prospettiva.
In soccorso degli agricoltori, è il caso di dirlo, oltre alle tecniche tradizionali c’è in campo l’“aridocoltura 2.0” messa a punto nell’ambito del progetto di ricerca Pon Water4Agrifood del Crea (il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria che fa capo al ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste). Pasquale Campi, ricercatore del Crea-Agricoltura e Ambiente, spiega: « Accanto alle tecniche di cura del suolo perché riesca ad immagazzinare più acqua (la cosiddetta green water), l’aridocoltura 2.0 ricorre all’irrigazione (che usa la cosiddetta blue water) guidata dal monitoraggio con sensori per il sistema suolo-pianta-atmosfera: sensori agrometeorologici, sonde di umidità del suolo che forniscono una misura immediata sul contenuto di acqua a livello dell’apparato radicale, sensori che misurano lo stato idrico della pianta».
Si tratta, in altri termini, di un sistema accurato di raccolta dati che serve per decidere quando e come irrigare. «Usiamo – dice ancora Campi – specifici programmi di supporto alle decisioni che aiutano a determinare il fabbisogno idrico delle coltivazioni (in metri cubi ad ettaro o millimetri di pioggia equivalenti) e informano gli agricoltori tramite app su smartphone. Possiamo arrivare al giusto consiglio irriguo per ogni lotto produttivo. Parliamo in questo caso della Smart-Irrigation dell’Agricoltura 4.0». Si tratta della frontiera più avanzata dell’innovazione tecnologica a servizio dell’agroalimentare. Che inizia a dare risultati. E che potrebbe rappresentare il futuro anche per le aziende agricole, come quelle zootecniche e orticole, che oggi consumano grandi quantità di acqua.
Esempi di questo genere, d’altra parte, sono comparsi a Verona in occasione dell’ultima Fieragricola Tech, dove sono stati presentati gli ultimi ritrovati tecnici come i sensori antisiccità, le trappole hi-tech per mettere al sicuro i raccolti dai parassiti, i sistemi integrati con satelliti e computer per gestire l’acqua e arrivare a risparmiarne il 20%. Gli agricoltori hanno già a disposizione un sistema di mappatura e monitoraggio da remoto dei terreni, per l’analisi dei fattori ambientali e geologici, il controllo delle macchine e attrezzature e per la migliore gestione dell’umidità presente. Tecnologia già in campo, dunque.
In attesa che questi metodi si diffondano, rimangono comunque i problemi quotidiani. Difficile indicare esattamente cosa accadrà, ma se si pensa che la produzione di alcuni dei migliori prodotti alimentari nazionali (dal Parmigiano Reggiano ai vini Doc passando per le carni) si basa su un equilibrio idrico delicato e fragile, si capisce subito dove si potrebbe andare a finire.
A tentare qualche stima i coltivatori ci hanno già provato. «Con il Po a secco – sottolinea la Coldiretti – rischia un terzo del Made in Italy a tavola che si produce proprio nella food valley della Pianura Padana dove si concentra anche la metà dell’allevamento nazionale». A conti fatti, si tratta di circa sei miliardi evaporati in una sola stagione. Danni che non possono essere contenuti solo con l’ausilio della tecnologia affidata alle singole imprese. Perché per fare fronte a un’Italia capovolta dal punto di vista idrico è necessario anche mettere in conto una seria politica di lavori pubblici sul territorio.
L'Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue (Anbi) ricorda quali sono le grandi necessità: 858 progetti definitivi ed esecutivi per l’effi-cientamento della rete idraulica del Paese per un investimento di circa 4,3 miliardi di euro, e capaci di garantire oltre 21.000 posti di lavoro. Sempre Anbi, inoltre, ha messo in cantiere la realizzazione di una serie di laghetti capaci di conservare l’acqua piovana. Francesco Vincenzi, presidente di Anbi, a proposito della situazione e di quello che occorre fare spiega: «La crisi idrica del Nord Italia non è una transitoria stagione siccitosa, ma la conseguenza di un ciclo idrico, ormai incapace di rigenerarsi naturalmente a causa di cambiamenti climatici sorprendentemente veloci e cui si può rispondere solo con la realizzazione di nuove infrastrutture e l’efficientamento di quelle esistenti per trattenere l’acqua di eventi meteo sempre più rari». E poi aggiunge: «Bisogna prendere atto che, se complessivamente l’Italia rimane un Paese idricamente fortunato, nelle regioni settentrionali c’è meno acqua disponibile».
Partendo da questa constatazione Pierluigi Claps, ordinario di costruzioni idrauliche al Politecnico di Torino, aggiunge: «Oltre alle tecniche agricole serve una rinnovata visione dello sviluppo delle infrastrutture idriche per l’irrigazione. In questo senso sarebbe opportuno creare una saldatura di intenti tra enti che hanno responsabilità e risorse a differenti livelli». Non solo: «Le regioni, innanzitutto, dovrebbero programmare nuove capacità di invaso e potenziare la capacità di controllare i flussi idrici, anche sotterranei, oggetto di concessione; i consorzi irrigui e di bonifica, dovrebbero accettare di aggregarsi per aumentare l’efficienza gestionale, e incoraggiare la transizione dalle vecchie alle nuove forme di distribuzione idrica sul campo». Due mosse che potrebbero affiancare i metodi avanzati di previsioni dei fabbisogni irrigui e «consentire – continua Claps – una piena realizzazione della sinergia infrastrutture- innovazione-gestione-risparmio che può portare a risultati tangibili già nella prossima stagione irrigua».
Ettore Prandini, presidente Coldiretti, precisa: «È necessario garantire acqua per gli usi civili, per la produzione agricola e per generare energia pulita. Un intervento necessario anche per raggiungere l’obiettivo della sovranità alimentare e la fornitura di prodotti alimentari nazionali di alta qualità e al giusto prezzo. L’irrigazione, infatti, può fare la differenza consentendo anche di triplicare le rese in campo». Insomma, l’aridocoltura per i coltivatori potrebbe non bastare. E lo stesso Prandini aggiunge: «Per questo motivo abbiamo avviato una partnership con Israele, per rafforzare ancora di più l’impegno sulle nuove tecnologie hi tech».